di Mario Medde
1) Energia, mobilità delle persone e delle merci, infrastrutturazioni materiali e immateriali, istruzione e formazione, politiche attive del lavoro, credito, sanità e tutela della salute, precarietà lavorativa e povertà diffusa, spopolamento record anche rispetto alle altre regioni, sono alcuni dei problemi che la nuova Giunta regionale ha l’obbligo di affrontare rapidamente. Qui stanno infatti le precondizioni di una nuova fase di sviluppo della Sardegna.
Ancora più a monte vi è però una prioritaria condizione, riguardo alle possibilità e opportunità di sviluppo, che attiene alle nuove istituzioni che dovrebbero sostituire quelle ormai in evidente difficoltà dell’Autonomia e dalla Rinascita, così come le abbiamo conosciute e vissute. La massima istituzione dell’Autonomia, l’Ente Regione, è il vero epicentro della crisi, come ne era stato il simbolo, comunque coinvolgente, per circa quarant’anni. Il simbolo e l’istituzione resistono inutilmente al definitivo tramonto delle idee e delle politiche, al venir meno delle speranze coltivate nelle stagioni della Rinascita, pure esaltanti per le passioni che attraversarono la vita dei gruppi dirigenti e degli stessi cittadini sardi.
Infatti, solo modernizzando il sistema Regione, rendendolo efficace ed efficiente, adeguato e strutturato in una logica di equità e partecipazione territoriale (Comuni, Province o Enti Intermedi, città metropolitane) si potranno affrontare e risolvere molti dei problemi da tempo irrisolti e rimuovere gli ostacoli, anche burocratici, che limitano e rallentano lo sviluppo. L’organizzazione dell’assetto istituzionale dell’Isola è un aspetto fondamentale nell’affermazione del principio di sussidiarietà, degli obiettivi di sviluppo e dei diritti di cittadinanza.
La riforma degli Enti Locali in Sardegna avviata nel 2012 rappresenta ancora un processo incompiuto, nonostante il riordino definito con la Legge regionale 12 aprile 2021, n. 7, che ha istituito la Città metropolitana di Sassari, modificato la circoscrizione territoriale della Città metropolitana di Cagliari, istituito le Province Nord-Est Sardegna, dell’Ogliastra, del Sulcis Iglesiente e del Medio Campidano, la circoscrizione della Provincia di Oristano, la circoscrizione territoriale della Provincia di Nuoro. Appaiono però ancora in itinere i provvedimenti utili alla definitiva applicazione della Legge n. 7 del 2021.
Ma anche di fronte alla sua definitiva attuazione, il modello istituzionale non renderebbe giustizia a una organizzazione istituzionale in grado di garantire in modo adeguato l’esercizio del principio di sussidiarietà attraverso poteri e risorse necessarie allo scopo. La forma di regione (non di Regione) non sarebbe diversa da quella che tradizionalmente abbiamo conosciuto e che vede ancora oggi l’Ente Regione modellato, quanto a poteri, risorse finanziarie e umane, su quello statale.
Ora, non solo si è esaurita, e da tempo, quella forza propulsiva, ma in una fase che necessita di creatività, di passioni e di positiva radicalità, si assiste invece alla difesa del fortino, di una Regione modellata sulla esperienza dello Stato ottocentesco. Ciò spiega il perché non riesca ad essere soggetto di regolazione dei bisogni e di promozione dello sviluppo, e con capacità attuative e operative molto ridotte.
È ormai evidente l’urgenza e la necessità di un ampio disegno di riforme istituzionali, a partire dall’Ente Regione, e (dopo l’abolizione di fatto delle Province e poi con la loro rinascita, ma che continuano però a sopravvivere nell’indigenza) dalla necessità di un reale e fattivo Ente intermedio, così da delineare e attuare una sorta di federalismo interno che sancisca una redistribuzione dei poteri e delle risorse tra le diverse istituzioni dell’Isola.
Un nuovo modello di democrazia che superi quello attuale della concentrazione fisica dei poteri, delle risorse finanziarie e umane nell’Ente Regione, e per la gran parte in un unico ambito territoriale. Una caratteristica che ha favorito non poco, tra le tante distorsioni di natura politica, finanziaria e istituzionale, una sorta di squilibrio nello sviluppo e negli assetti demografici dell’Isola.
Sul filo di una riflessione di anni, ma ancora più attuale in questo momento per una sedimentazione dei problemi irrisolti, per le dinamiche che nel frattempo hanno profondamente inciso nei rapporti interistituzionali in Italia e in Europa, e per le conseguenze economiche e sociali prodotte dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina ora, è utile, anche per le rappresentanze sociali, non solo ovviamente per la politica, riprendere con grande determinazione i temi dell’Autonomia e della Specialità della Sardegna. Ciò anche in considerazione del dibattito e delle iniziative nazionali e, soprattutto nell’Isola, sul riconoscimento del principio di insularità nella Costituzione.
In primo luogo, a scanso di equivoci, a proposito della vicenda del riconoscimento dello status d’insularità, una battaglia che è patrimonio storico della CISL, è importante sottolineare che questo obiettivo diventa rilevante e operativo se inserito però in un nuovo Patto costituzionale tra Stato e Regione; precondizione questa per riconoscere all’Isola le pari opportunità rispetto alle altre realtà del Paese e per rinegoziare, con pari dignità, poteri e risorse utili a un maggiore e migliore autogoverno dell’Isola. Si potrà così superare anche la dimensione economicistica dell’articolo 13 dello Statuto speciale, che pure aveva e continua ad avere valenza costituzionale.
In secondo luogo, sul versante delle responsabilità regionali e per una reale Autonomia, è illusorio pensare che la sola manutenzione dell’Ente Regione, attraverso una nuova legge statutaria e con una nuova legge elettorale, possa incidere positivamente e in termini duraturi sul rapporto politica-istituzioni-cittadini, sulla inefficienza della Regione, sul rapporto con lo Stato e l’Unione europea. Infatti, la forma di governo, il rapporto esecutivo/legislativo, la modalità della partecipazione dei cittadini, ineleggibilità e incompatibilità, il conflitto d’interessi, la riforma degli assessorati sono obiettivi importanti da perseguire, ma non decisivi per acquisire e praticare nuovi poteri e per attuare anche una redistribuzione di risorse e poteri agli Enti intermedi e ai Comuni per realizzare una sorta di federalismo interno.
È la «forma di stato», per noi la forma di regione, che va rivista; il che presuppone massima lucidità sul disegno che le istituzioni e la società sarda vogliono concretizzare e sulla evoluzione dunque del rapporto con lo Stato.
I problemi che è indispensabile affrontare, lo ripetiamo, riguardano infatti, e qui si evidenziano per soli titoli, il riconoscimento del diritto al lavoro e alla sanità come valori primari, rimuovendo prima di tutto le diseconomie esterne al processo produttivo che ostacolano il radicamento e rafforzamento delle intraprese nell’Isola e garantendo l’apporto dello Stato alla spesa sanitaria; l’autonomia finanziaria della Regione (si veda più sotto il punto n. 2); il riconoscimento dello status di insularità e la rimozione dei vincoli circa le disparità di opportunità che ostacolano il progresso economico e sociale dell’Isola; la valorizzazione dell’insularità come dimensione positiva; l’affermazione dell’autogoverno attraverso un nuovo Patto costituzionale tra Stato e Regione; un nuovo modello di democrazia che realizzi il federalismo interno, nell’accezione dell’affermazione del principio di sussidiarietà, e il superamento dell’obsoleto modello statuale della Regione.
Non è secondario ribadire che lo Stato prende dalla Sardegna molte più risorse finanziarie di quante ne trasferisca, e non si cura, su più versanti, di promuovere le pari opportunità rispetto alle altre Regioni. Ma nel contempo bisogna pure sottolineare che la Regione, come attuale forma istituzionale, è inadeguata, inefficace e talvolta sprecona. Non riesce quindi più ad espletare la funzione di soggetto regolatore dei bisogni e delle aspettative dei sardi.
Sono due gli aspetti strutturali dell’attuale questione sarda che bisogna affrontare con la riflessione e l’iniziativa politica. Ferma restando, ovviamente, la valutazione della capacità di governo, delle scelte politiche e della qualità delle iniziative legislative, sia della Giunta regionale che del Governo nazionale.
Proprio per questi motivi è urgente evitare che le rappresentanze politiche e istituzionali rischino di ristagnare nella mera sopravvivenza, senza un disegno di cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro dei sardi. Il pericolo, infatti, è che l’interesse collettivo venga subordinato all’istinto di sopravvivenza e alla rendita di posizione.
Invece, una strategia di alto profilo che, nel promuovere il cambiamento, riformi positivamente anche il rapporto con i cittadini, dovrebbe prevedere la ridefinizione della forma di Regione, affrontando contestualmente le seguenti questioni:
– l’inefficacia della Regione così come si è sedimentata in questi anni di autonomia speciale spesso caratterizzati dalla gestione delle sole emergenze e da un utilizzo inadeguato delle risorse finanziarie;
– le difficoltà della rappresentanza politica e la strutturale debolezza delle leadership istituzionali nelle politiche nazionali ed europee che così grande peso hanno nelle scelte dello sviluppo, del lavoro e delle pari opportunità che l’Isola rivendica rispetto alle altre regioni.
La riflessione conseguente è che la specialità e l’Autonomia hanno certamente accompagnato, come idee forza, le speranze dei sardi nella lunga fase della prima modernizzazione dell’Isola, ma che da tempo si sia però di fronte a un loro innegabile logoramento e alla esigenza imprescindibile di ridefinire le caratteristiche della nostra Autonomia. La Rinascita, peraltro, pur permanendo come norma costituzionale, è stata rimossa anche dal dibattito politico. Eppure sono ancora evidenti i divari economici e sociali che l’hanno motivata.
Si aggiunga la rottura del Patto costituzionale tra Stato e Regione su temi decisivi, quali il lavoro e altri diritti di cittadinanza che andrebbero invece garantiti.
Bisogna invece pensare e programmare lo sviluppo con un’idea di società improntata ai valori di giustizia sociale e di libertà. Valori e progetti da collocare oltre l’autonomia e la specialità così come le abbiamo conosciute. Queste dicono tutto o quasi sul recente passato, ma nulla o quasi sul futuro.
Si sono infatti modificate le categorie politiche, istituzionali, economiche e sociali che davano linfa e razionalità all’autonomia, così come storicamente è stata rivendicata e attuata nella dimensione della specialità; le cui ragioni non sono venute meno proprio perché i Sardi sono un popolo, con esperienze storiche, culturali, linguistiche e istituzionali del tutto originali che hanno dato luogo a una identità che deve essere riconosciuta e valorizzata.
È anche profondamente mutata la situazione internazionale ed europea, e con essa l’economia e la finanza. È cambiato lo Stato.
Interroghiamoci dunque su cosa è all’ordine del giorno della politica e delle istituzioni sarde. Quale idea e progetto per le istituzioni e la società? Forse l’autogoverno come forma più avanzata della specialità che si afferma in uno Stato federalista? Oppure l’autogoverno come moderna sovranità? O, ancora, il ristagno non solo politico di un’Autonomia ormai superata anche dalle dinamiche interne al Paese e all’Europa e dalla forza delle regioni a Statuto ordinario?
Sottrarsi a questi interrogativi comporta il pericolo dell’emarginazione, in Italia e in Europa, e di un ulteriore arretramento economico e sociale.
La Regione deve comunque fare i conti con il federalismo fiscale, non quello di natura istituzionale, ma quello dettato dai rapporti di forza e da consistenti differenziali di sviluppo. Il rapporto tra accumulazione della ricchezza, centri e capacità di spesa rappresenta una questione ineliminabile per qualsivoglia scelta di sviluppo. Nel contempo è una priorità la definizione degli assetti istituzionali dell’Isola, per attuare il federalismo interno sulla base del quale rinegoziare con lo Stato poteri, risorse e funzioni. In questa direzione, il federalismo cooperativo e solidale rappresenta una risposta coerente con le storiche aspettative dei sardi e un obiettivo da praticare nell’attuale fase storica. Non c’è però più tempo da perdere. I più importanti indicatori economici e sociali dell’Isola volgono costantemente in senso negativo: lavoro, produzione della ricchezza, reddito delle famiglie.
La conseguenza più evidente è l’aumento delle povertà, con più di trecentomila persone al di sotto della soglia della povertà relativa.
Eppure un’altra Sardegna è possibile: con maggiori opportunità lavorative, e adeguate misure di contrasto alla povertà e maggiori tutele sociali. Si tratta altresì di conciliare l’esigenza di una maggiore produzione di reddito con una più equa distribuzione della ricchezza. A tal fine è indispensabile una politica non minimalista, valori, programmi, capacità attuativa, radicamento sociale, nei quali incardinare una rappresentanza politica non solo elettorale.
S’impongono dunque un’idea e una pratica della politica come dimensione popolare e diffusa, e la democrazia rappresentativa, con la valorizzazione dei corpi sociali, come strumento e insieme di regole che meglio e più di altri riescono ad affermare le libertà individuali e collettive.
Non è solo un problema di risorse finanziarie, ma di quante e quali ragioni e passioni, come sardi, sapremo mettere in campo per essere realmente liberi dai pesanti condizionamenti, storici e attuali, che frenano lo sviluppo dell’Isola.
In questa direzione le riforme istituzionali sono molto importanti. A iniziare dalla considerazione che statuto e legge statutaria sono inscindibili e costituiscono un tutto unico organico, indipendentemente dal fatto che i contenuti della seconda siano stati decostituzionalizzati e affidati alle scelte del legislatore regionale.
È fondamentale considerare contestualmente sia la specialità che la forma di governo e i due atti normativi corrispondenti, cioè Statuto e Legge statutaria. Ancora prima è indispensabile collocare queste scelte in un principio ispiratore che riguarda non solo l’idea che oggi abbiamo della sovranità, ma anche del rapporto con l’Italia e con l’Unione europea, e del federalismo correttamente inteso. Infatti il diritto all’autogoverno è qualcosa che si desidera per poter godere della libertà, dei beni economici e sociali e di tutte quelle cose cui si attribuiscono valore per il progresso della comunità e per l’emancipazione delle persone.
Tutto ciò va però pensato e attuato in relazione a quel che accade oggi nel mondo, al difficile processo di integrazione e costruzione dell’unità europea, ad una nuova idea di sovranità che, lo ripetiamo, non è più quella dello Stato di matrice ottocentesca, alle interrelazioni economiche, istituzionali e religiose che si dimensionano ben oltre le conosciute coordinate eurocentriche.
2) L’autonomia finanziaria della Regione obiettivo fondamentale per lo sviluppo e il lavoro
Da tempo pesa come un macigno sulla manovra finanziaria e di bilancio l’assenza di una reale autonomia finanziaria della Regione e le poche risorse disponibili, oltre quelle vincolate a diverso titolo. Se infatti è vero che con gli accordi tra Regione e Stato del 2019 e del 2021 si è considerata chiusa la vertenza sulle entrate promossa dalla Regione, e che in materia di finanza pubblica vengono ridotti i contributi a carico dell’Isola a partire dal 2022, è altrettanto vero che si tratta di verificare i risultati concreti del consenso registrato sull’inserimento in Costituzione dello status di insularità, e che rimane comunque in piedi la storica richiesta di rivedere le norme dello Statuto speciale circa le quote di compartecipazione sul gettito dei tributi erariali, che ad esempio per la Sicilia è interamente attribuito alla Regione, a eccezione delle accise e dei proventi del monopolio del tabacco e del lotto.
Le entrate non sono certo tutto nel governo di una Regione come la nostra, ma è vero che l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, richiamata anche dall’articolo 119 della Costituzione, come rivisto dalla Legge Costituzionale n. 3/2001, pur nelle compatibilità previste dallo Stato, non può essere un richiamo solo formale e nominale; ma deve corrispondere a una reale autonomia anche sul versante tributario.
In questa direzione sono infatti più praticabili gli obiettivi dello sviluppo, di una maggiore produzione di ricchezza e di una sua più equa distribuzione.
Sulla poca manovrabilità dei fondi regionali nel bilancio incide inoltre pesantemente l’accordo con il Governo nazionale che a suo tempo trasferì alla Regione i costi della sanità e del trasporto pubblico locale in cambio di maggiori entrate su IRPEF e IVA, come a dire che gli svantaggi dei cittadini sardi dovevano essere pagati dai cittadini sardi senza neppure avere i poteri indispensabili a regolare il mercato della continuità territoriale e il diritto di godere del principio di uguaglianza e di pari opportunità sulle prestazioni sanitarie.
Ragionare dunque in termini di compatibilità finanziarie significa occultare queste ed altre ragioni che obbligano invece a una radicale inversione di strategia per consentire ai cittadini sardi di vedere concretizzata l’idea costituzionalmente riconosciuta dell’autonomia e della specialità e nel contempo delle pari opportunità, attraverso una nuova negoziazione Regione-Stato.
A tal fine, la Regione e gli Enti Locali territoriali possono inoltre maggiormente contribuire al miglioramento dei servizi della Pubblica Amministrazione attraverso l’ammodernamento delle sue strutture, la digitalizzazione, la semplificazione delle procedure e la vicinanza alle necessità dei cittadini.
Dall’avvio della specialità autonomistica molta strada si è percorsa, e certamente si è compiuta la prima modernizzazione della Sardegna, ma i problemi più rilevanti che hanno storicamente caratterizzato la questione sarda sono ancora all’ordine del giorno del dibattito politico, istituzionale sociale, e oggi attendono soluzioni diverse e in linea con le dinamiche di questi tempi.
Ciò che la Sardegna chiede allo Stato è soprattutto pari opportunità, rispetto alle altre regioni del Paese, e dunque l’affermazione e pratica del principio di giustizia. Non mera solidarietà, ma vera giustizia. Una comunità nazionale è tale se si costruisce sulla reciprocità e su positive relazioni interistituzionali tra le diverse aree dell’Italia. Quindi cooperazione e reciprocità per promuovere e affermare i diritti della persona e dei cittadini. Sono queste le condizioni della giustizia perché presuppongono il riconoscimento di sé e dell’altro (in questo caso la Regione Sardegna e lo Stato) all’insegna della equità. Le vicende storicamente aperte, lo ripetiamo ancora una volta, dei costi della insularità, dell’energia, della continuità territoriale e dei trasporti, degli inadeguati livelli di infrastrutturazione materiale e immateriale, per quanto di competenza dello Stato, attestano il diritto della Sardegna alle pari opportunità e alla uguaglianza con gli altri territori e regioni del Paese.
3) I documenti della programmazione unitaria per leggere la rilevanza dell’autonomia finanziaria della Regione.
Il bilancio e la legge di stabilità sono i documenti che sostanziano la manovra finanziaria e di bilancio della Regione Sardegna. Il bilancio è la proiezione contabile delle norme vigenti. La legge di stabilità opera invece per ricondurre gli andamenti tendenziali a quelli fissati dai documenti programmatici, in primo luogo il DEFR e la relativa Nota di aggiornamento. La legge di stabilità contiene quindi norme tese a realizzare effetti finanziari con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio di previsione. Gli obiettivi da raggiungere sono quelli evidenziati dal Programma regionale e pluriennale di sviluppo.
Il Programma regionale di sviluppo si basa sul concetto di identità sarda e si sostanzia di 7 strategie: identità politico-istituzionale, identità economica, identità territoriale, ambientale e turistica, identità sociale del lavoro e della salute, identità culturale, identità rurale, identità della insularità. Il DEFR valuta lo stato dell’arte e individua per ciascuna le prospettive del triennio 2024-2026.
Sulla manovra finanziaria e di bilancio il confronto con la Giunta regionale prima dell’approvazione è da anni però del tutto inesistente, salvo qualche riunione con l’Assessore alla Programmazione, e altrettanto dopo la sua approvazione e prima del passaggio alla competente Commissione. Da ricordare, al contrario, una tradizione pluridecennale di confronto tra il Sindacato e la Giunta regionale, anche con accordi specifici che trovavano riscontro nei documenti della manovra finanziaria e di bilancio.
Sul merito dei documenti (Programma di sviluppo e DEFR) c’è da evidenziare una declinazione degli obiettivi, attraverso le 7 strategie, che appare propagandistica e per nulla connessa con la realtà dei problemi. Come ad esempio l’identità del lavoro, che non viene esplicitata nel suo significato e risulta riduttiva negli obiettivi da raggiungere. Altrettanto deludenti sono le altre strategie, in particolare l’identità della sanità, quella sociale e della insularità. È sufficiente infatti valutarne la portata osservando la crisi e le carenze del sistema della medicina territoriale, della prevenzione e cura, delle liste d’attesa, dell’assenza in tante comunità dei medici di famiglia, l’aumento delle povertà relative e assolute, il mancato monitoraggio dell’efficacia della spesa.
Da verificare ora con la nuova Giunta regionale, a seguito delle elezioni del mese di febbraio 2024, quali saranno i contenuti e le proposte che sostanzieranno il nuovo Piano regionale di sviluppo, il DEFR e la manovra finanziaria e di bilancio, ivi compresa la legge di stabilità per il 2025.