di Mario Medde

La gran parte degli indicatori del mercato del lavoro in Sardegna registra non solo la crisi dell’economia isolana e la disoccupazione a due cifre come dato permanente, ma anche la precarizzazione e la perdita di valore del lavoro, sia in senso lato rispetto alla dignità della persona che sul versante di numerose configurazioni giuridiche normative (come ad esempio il lavoro a termine, che consente di registrare un numero maggiore di occupati, ma che riduce la quantità e la disponibilità di risorse finanziarie, e ,in ultima istanza, anche il monte salari previdenziale ai fini di una pensione neppure dignitosa).

Si riduce, inoltre, e sempre di più il reddito da lavoro, e si assottiglia la sua disponibilità come quantità da impegnare per fronteggiare le necessità primarie della vita quotidiana.

Il 26 ottobre del 2017, a Cagliari, in occasione della Settimana sociale dei cattolici dedicata al Lavoro, il Papa affermò in un video messaggio che «il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori». Non è in discussione il lavoro a termine quando risponde a specifiche esigenze del processo lavorativo e ad una innegabile stagionalità, ma quello strumento che consente di effettuare un maggiore controllo del lavoratore e insieme un presunto risparmio, anche grazie, magari, a un perverso sistema pubblico di incentivazioni. Questi ultimi sono però un sovrappiù poiché il tempo determinato gode appunto nel mercato del lavoro di questa duplice spinta, la prima tutta interna alle caratteristiche del sistema produttivo, la seconda a un utilizzo distorto del rapporto di lavoro.

La disoccupazione,in primo luogo, e poi il lavoro precario, causano ferite inguaribili nella vita delle persone, minano i progetti e le speranze dei giovani e la stessa stabilità delle famiglie. Le fondamenta di una dignitosa vita quotidiana vengono compromesse dall’impossibilità di costruire, anche passo dopo passo, un proprio e soggettivo percorso esistenziale, spirituale e materiale. Il liberismo senza freni, la globalizzazione senza regole adeguate a controllare il potere della finanza, la competizione solo per costi, e non per la qualità dei prodotti, che spinge le multinazionali a localizzarsi dove esistono, anche nella UE, livelli retributivi molto bassi, la eccessiva flessibilità del lavoro, la finanziarizzazione dell’economia, il rigido vincolo del pareggio di bilancio piuttosto che l’investimento sui diritti della persona, la crisi dello Stato-nazione e le difficoltà nelle interlocuzioni frontali per dare soluzioni ai problemi, sono alcuni degli aspetti che hanno portato alla crisi della politica come autonoma capacità di governare le scelte della cosa pubblica a favore della giustizia sociale e della speranza di positivo cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro.

Marshall Berman scrisse anni or sono un libro, con un titolo preso in prestito da una frase di Carlo Marx e Frieidrich Engels: «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Un saggio sulla modernità e sulla potenza creatrice ma devastante del capitalismo. Una frase e un’immagine che riassumono emblematicamente la dissoluzione di ciò che più amiamo, libertà e diritti sociali, a causa di una concezione eccessivamente economicistica e liberista della nostra società.

L’assenza di valori supremi, oltre l’immediatezza e il calcolo del solo profitto, ha fatto smarrire il valore del lavoro e quello della persona. Ha scritto Ernesto Balducci nel saggio La terra del tramonto: « ... Sulla polvere dei profeti passeggiano i ragionieri. Le coscienze sono sempre di più prigioniere di un presente che si è svincolato dal passato e dal futuro, ripiegate su se stesse, in preda a una soggettività senza destinazioni universali».

Sembrano trascorsi secoli, e invece sono pochi lustri, da quando la civiltà del lavoro era sotto attacco su un versante totalmente diverso, quello della critica al lavorismo e dell’alienazione da lavoro, e si teorizzava persino “l’ozio creativo” e la necessità di promuovere in alternativa la cultura del tempo libero. Ma il lavoro, da valore e simbolo di forza e rappresentanza ha perso la sua consistenza e unicità; ora esistono i lavori e la frantumazione di quel mondo riflette la debolezza strutturale della politica, o almeno di quella parte che aveva (ha?) l’ambizione di rappresentarla sul versante politico, e che comunque da lì storicamente proveniva. Una svolta importante e necessaria impone ora di riunificare il lavoro (i lavori) intorno a valori e idee-forza, orientare il cambiamento, suscitare passioni, ricostruire la politica sui valori della persona e rimettendo insieme l’“homo democraticus” e quello “economicus “ (e non «riducendolo definitivamente ad atomistica entità tecnico-economica»), organizzare i diversi soggetti che si muovono in quella parte che si vuole rappresentare. Il punto di vista del lavoro, della sua rivalutazione, e dei diritti-doveri ad esso connessi, coniugati con formazione, saperi e conoscenza, sono infatti la base per ridare centralità ai valori dell’autostima, dell’indipendenza, della realizzazione personale, del rispetto individuale e sociale, in una parola di quella dignità della persona che è al centro di una società fatta di vera libertà e giustizia.

Anni or sono le Edizioni Lavoro pubblicarono un volumetto dal titolo La politica e il dolore. Alcuni passaggi hanno, alla luce di quel che oggi accade sul versante elettorale, in Italia e Sardegna, un valore profetico. Nella parte conclusiva della presentazione Franco Riva scrive: «Il dolore attraversa la politica, e dunque “governare il dolore” non può significare soltanto gestire le situazioni o le emergenze che lo riguardano, ma anche correggere le politiche che lo producono». E continua dicendo che al dolore bisogna dare concretamente voce attraverso la progettualità politica, e con la sua instancabile correzione, per evitare che esploda dal basso l’esasperazione della sopportazione.

Con la seconda Repubblica si è teorizzata, anche sul versante elettorale, l’alternanza degli schieramenti al potere della cosa pubblica per superare le distorsioni e i consociativismi della prima. Ma una reale alternanza necessita di grandi e chiare alternative tra modelli di società. La rappresentanza politica del mondo del lavoro, o almeno dei problemi posti da questa parte, ha evaso questo intendimento annegando in una sorta di pensiero unico, adattandosi allo spirito del tempo impersonato dalle presunte compatibilità economiche e contabili, spesso dalla centralità delle borse e delle banche, dagli insuperabili vincoli di bilancio, dal blocco degli investimenti per non superare i diktat europei, dalla subordinazione della politica all’economia.

Di questi tempi si è costretti ad attraversare il deserto. Dalla parte del valore del lavoro e di quello che ciò comporta e produce. Un viatico indispensabile per avere la forza e la passione necessaria a coltivare la speranza di raggiungere gli obiettivi di maggiore giustizia sociale e libertà.