di Mario Medde
Le province declassate alle elezioni di fine settembre. Un esempio di pochezza normativa e di vuoto progettuale e politico. A proposito anche dell’avvio dei lavori della Commissione regionale su forma di governo e legge statutaria.
La questione della Specialità e dell’Autonomia della Sardegna è talvolta richiamata nei documenti della Regione, ma non diventa ormai da tanti anni iniziativa e progetto politico e istituzionale, sia sul versante di un nuovo rapporto Regione-Stato che su quello interno di un modello istituzionale e delle Autonomie locali e regionali che prefiguri un modello di democrazia più partecipato, all’insegna del principio di sussidiarietà, e aperto anche alle rappresentanze della società.
Questo ritardo di elaborazione e proposta politica risalta anche in avvio dei lavori della Commissione del Consiglio regionale su forma di governo e legge statutaria e in prossimità della elezione dei Consigli provinciali e dei Presidenti delle Province di fine settembre.
Il 29 settembre si voterà infatti in Sardegna per la elezione del Consiglio della Provincia e del Presidente. Verranno eletti dai consiglieri e dai sindaci dei comuni della provincia. Saranno elezioni di secondo grado con il corpo elettorale popolare che viene dunque eliminato. Il Consiglio durerà in carica due anni e il Presidente quattro. La legge che disciplina le elezioni è quella nazionale n. 56 del 2014, nota come legge Delrio. Le regioni a statuto speciale dovevano poi adeguare i propri ordinamenti interni ai principi della legge.
La Sardegna ha emanato le sue disposizioni conformandosi ai dispositivi della legge nazionale con la legge regionale n.2 del 2016 che ha stabilito il nuovo assetto delle province e delle città metropolitane. Nel 2023 alla città metropolitana di Cagliari si è aggiunta, con norma regionale confermata dalla Corte Costituzionale, dopo l’impugnazione del Governo, quella di Sassari. Dunque sei province e due città metropolitane.
Un obbrobrio di legge, la n. 56 del 2014 che, rimasta “per aria” 11 anni, vanifica i più seri ragionamenti sull’ente intermedio e su un soggetto istituzionale che, al pari di Regione e Comuni, avrebbe dovuto e potuto attuare nel suo livello territoriale di competenza il principio di sussidiarietà e di adeguatezza su temi che, in tutti questi undici anni, né la Regione né i Comuni hanno saputo governare e gestire. La Legge n. 56 del 2014 è rimasta in vigore perché non aveva previsto un dispositivo di annullamento nel caso in cui, come poi successe, il referendum avesse bocciato la riforma costituzionale, che conteneva appunto anche la soppressione delle province. L’inerzia della politica, a tutti i livelli, e una legge mediocre produsse un lunghissimo periodo di stato comatoso delle province che, commissariate, non avevano più le risorse e lo status istituzionale per continuare a esercitare una funzione importante su molti aspetti della vita del territorio: ambiente, edilizia scolastica e formazione professionale, assetto viario, cultura e beni culturali. Delle vecchie funzioni, assegnate negli anni alle province, sono scomparse tra le altre, nella formulazione di quelle nuove, i servizi sanitari di igiene e profilassi pubblica, la protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali, la caccia e pesca nelle acque interne, lo smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche. Da evidenziare che l’articolo 3 c.1, lettera b dello Statuto speciale della Sardegna, modificato dall’articolo 4 della Legge costituzionale n.2 1993, attribuisce alla potestà legislativa esclusiva regionale la materia “Ordinamento degli Enti Locali e delle relative circoscrizioni“, e che l’articolo 114 della Costituzione sancisce le Autonomie territoriali quali Enti costitutivi della Repubblica.
Ciononostante, le scelte politiche e istituzionali nazionali, senza neppure un’adeguata resistenza regionale, hanno ridisegnato il sistema delle Autonomie locali riconfermando la centralità di Regione e Comuni e declassando le Province ad area vasta con elezione indiretta e, nella realtà, con una sorta di gestione assegnata agli amministratori dei Comuni. In Sardegna le province hanno per la gran parte del loro territorio una lunga storia identitaria che accomuna i cittadini non solo dal punto di vista culturale, territoriale, spesso linguistico, ma anche e soprattutto dalle necessità di una programmazione dello sviluppo dettate appunto da queste caratteristiche di omogeneità. Da evidenziare che l’elezione indiretta può portare a una sorta di monopolio della rappresentanza della Provincia da parte di consiglieri provenienti da Comuni più grossi e con un potere di voto più consistente, con il pericolo che si affermino scelte municipali piuttosto che territoriali e di area vasta.
L’assenza di partecipazione democratica alla elezione del Consiglio provinciale e del Presidente ha prodotto un interesse connesso solo agli accordi politici tra i diversi schieramenti con la totale assenza di proposte e confronti riguardanti gli obiettivi che si vogliono raggiungere con le nuove strutture istituzionali, il rapporto con i Comuni e la Regione, e il volto che si intende dare al nuovo sistema delle Autonomie Locali, considerate anche le Città metropolitane. Queste ultime, per inciso, però vanno governate e amministrate come un Comune perché nel loro ambito la tipologia di attività e servizi è propria di questo ente locale.
In Sardegna soprattutto, per le sue caratteristiche geoterritoriali, per essere l’unica vera grande isola del Mediterraneo, per la sua specialità istituzionale, per le sue dimensioni e la sua storia, almeno dal periodo giudicale in poi, il problema e l’assetto delle Autonomie locali vanno infatti affrontati e trattati in termini unitari e nella dimensione anche regionale, Si tratta di definire una nuova regione per superare le evidenti difficoltà del sistema Sardegna, ancora caratterizzato da una governance istituzionale che ha accompagnato la fase dell’Autonomia e della Rinascita, così come le abbiamo conosciute e vissute, e da tempo ormai in grande difficoltà.
La massima istituzione dell’Autonomia, l’Ente Regione, è il vero epicentro della crisi, come ne era stato il simbolo, comunque coinvolgente, per circa quarant’anni. Il simbolo e l’istituzione resistono inutilmente al definitivo tramonto delle idee, delle politiche e delle speranze coltivate nelle stagioni della Rinascita, pure esaltanti per le passioni che attraversarono la vita dei gruppi dirigenti e degli stessi cittadini sardi. Una crisi che spesso si riverbera, con le conseguenze che i cittadini sardi ben conoscono, sugli altri livelli istituzionali e senza alcun ragionamento o progetto di sistema, soprattutto sul versante dei diritti di cittadinanza, e che né i comuni né le province sono stati in grado di gestire o lenire la sofferenza che questo deficit provoca nelle persone e nelle famiglie. Si pensi solo ai problemi della sanità, alla qualità delle infrastrutturazioni materiali e immateriali, alla rete viaria e stradale, alla edilizia scolastica e alle strumentazioni didattiche e ai laboratori, alla tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, alla scuola e alla formazione.
Solo modernizzando il sistema regione, rendendolo efficace ed efficiente, adeguato e strutturato in una logica di autonomia, ma anche di integrazione e collaborazione, equità e partecipazione territoriale (Regione, Comuni, Province o Enti Intermedi, città metropolitane) si potranno affrontare e risolvere molti dei problemi da tempo irrisolti, e rimuovere gli ostacoli, anche burocratici, che limitano e rallentano lo sviluppo.
L’organizzazione dell’assetto istituzionale dell’Isola è infatti un aspetto fondamentale nell’affermazione del principio di sussidiarietà, degli obiettivi di sviluppo e dei diritti di cittadinanza.
La storia della Sardegna è certamente quella del suo popolo, soprattutto valutando l’ambito storico, ma anche delle sue istituzioni politiche, per le quali conta pure l’ambito giuridico, perché nascono da norme che ne disciplinano le funzioni, l’organizzazione e il funzionamento.
Relativamente al riordino degli Enti Locali il legislatore deve valutare la potestà legislativa primaria, l’autonomia statutaria e regolamentare degli Enti Locali, la potestà legislativa della Regione Sardegna, il problema dei controlli, e infine, ma non certo per ultimo, il ruolo del Consiglio delle Autonomie Locali e il rapporto con la Conferenza permanente Regione-Enti Locali. Infatti tutto ciò è stato valutato anche in fase di predisposizione della Legge di riordino degli Enti Locali la n. 7 del 2021.
Ma pure di fronte alla sua definitiva attuazione, il modello istituzionale non renderebbe giustizia a una organizzazione in grado di garantire in modo adeguato l’esercizio del principio di sussidiarietà attraverso poteri e risorse necessarie allo scopo. La forma di regione (non di Regione) non sarebbe diversa da quella che tradizionalmente abbiamo conosciuto e che vede ancora oggi l’Ente Regione modellato, quanto a poteri, risorse finanziarie e umane, su quello statale.
Infatti, non solo si è esaurita, e da tempo, quella forza propulsiva, ma in una fase che necessita di creatività, di passioni e di positiva radicalità, si assiste invece alla difesa del fortino, di una Regione di tipo ministeriale modellata sulla esperienza centralista dello Stato ottocentesco. Ciò spiega il perché non riesca ad essere soggetto adeguato di regolazione dei bisogni e di promozione dello sviluppo, e con capacità attuative e operative molto ridotte.
Va assunto quindi un nuovo modello di democrazia che superi quello attuale della concentrazione fisica dei poteri e delle risorse finanziarie e umane nell’Ente Regione, che ridia ruolo autonomo e partecipazione democratica alle province, che rafforzi i comuni anche attraverso un trasferimento di risorse e poteri dall’Ente Regione; la sua configurazione tipo modello ministeriale e di concentrazione territoriale ha infatti favorito non poco, tra le tante distorsioni di natura politica, finanziaria e istituzionale, una sorta di squilibrio nello sviluppo e negli assetti demografici dell’Isola.
Diventa fondamentale dunque progettare una nuova forma di Regione, a partire da un accordo con lo Stato che rafforzi i poteri e l’autonomia finanziaria e contestualmente definire gli assetti interni, l’organizzazione e il rapporto con le altre autonomie, comuni e province. Infatti, la forma di governo, il rapporto esecutivo/legislativo, la modalità della partecipazione dei cittadini, l’ineleggibilità e incompatibilità, il conflitto d’interessi, la riforma degli assessorati sono obiettivi importanti e da perseguire, ma da soli non decisivi per acquisire e praticare nuovi poteri e per attuare anche una redistribuzione di risorse e poteri agli Enti intermedi e ai Comuni per realizzare una sorta di federalismo interno. Aspetti che vanno valutati e assunti per individuare i contenuti di un progetto di assetto istituzionale che riguardi Comuni, Province e Regione.
Il principio di sussidiarietà, ma anche di adeguatezza e differenziazione, consente infatti di attuare meglio un moderno principio di sovranità. Questa appartiene al popolo, ma in quanto esercizio attiene ai diversi livelli della rappresentanza (Enti locali, Regione, Stato). Da qui l’esigenza di evidenziare gli strumenti e le sovranità primarie (e concorrenti) tra le diverse articolazioni dei sistemi istituzionali. Dunque è necessaria la gerarchia delle fonti per evitare lo snaturamento di alcuni atti. In questa direzione, per evitare l’invasività della Regione, si tratta anche di rafforzare il rapporto con le Autonomie locali con un organo rappresentativo non meramente consultivo, com’è purtroppo ora nei fatti il Consiglio delle Autonomie Locali.
Nel valutare il rilancio del sistema delle Autonomie locali e della Regione è altresì fondamentale sottolineare che statuto e legge statutaria sono inscindibili e costituiscono un tutto unico organico, indipendentemente dal fatto che i contenuti della seconda siano stati decostituzionalizzati e affidati alle scelte del legislatore regionale.
Infatti, è fondamentale considerare contestualmente sia la specialità che la forma di governo e i due atti normativi corrispondenti, cioè Statuto e Legge statutaria. Ancora prima è indispensabile collocare queste scelte in un principio ispiratore che riguarda non solo l’idea che oggi abbiamo della sovranità, ma anche del rapporto con l’Italia e con l’Unione Europea, e del federalismo correttamente inteso. Infatti il diritto alla vera autonomia, quella interna e quella che si manifesta nei rapporti interistituzionali, è qualcosa che si desidera per poter godere della libertà, dei beni economici e sociali e di tutte quelle cose cui si attribuiscono valore per il progresso della comunità e per l’emancipazione delle persone.
