Riflessioni al tempo del coronavirus

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Breve riflessione su emergenza e libertà

(Norbello 23 marzo 2020) «Che stiamo vivendo una crisi non sembra discutibile. E in una crisi qualcosa deve pur morire. Convenzioni, idee, stili di vita che sembravano incrollabili. Gruppi sociali, e anche professioni, minoranze che perdono la fede in se stesse perché non potranno più continuare a vivere o dovranno farlo in maniera diversa. E la prima cosa che sentono di perdere è la sicurezza e la vastità di tempo che a essa corrisponde».

Così scriveva nel 1958 Maria Zambrano, filosofa spagnola, in un suo saggio titolato Persona e democrazia. Certo si riferiva a vicende di un altro contesto storico e sociale, ma oggi comunque utili a comprendere le preoccupazioni che pervadono il quotidiano delle persone alle prese con l’emergenza sanitaria imposta dal coronavirus. Uno stato d’animo, però, non di minoranze , ma di una parte maggioritaria, se non totale, della popolazione.

Nel pensiero della Zambrano s’impone comunque l’idea positiva che la storia è una specie di aurora ripetuta ma non compiuta, dischiusa al futuro e che l’alba ha più valore della morte nella storia umana.

Ma questa speranza di tipo prospettico, che è indispensabile coltivare anche quotidianamente, va alimentata con riflessioni utili a capire il presente. Soprattutto per evitare che, anche nel medio e lungo periodo, il virus porti le istituzioni e la politica a scelte che possano incidere pesantemente sulla libertà individuale e collettiva, sull’accesso ai diritti di cittadinanza, sulla limitazione all’attività d’impresa e di lavoro.

È riduttivo, dunque, affermare che si è disposti a rinunciare, ma temporaneamente, a libertà e diritti in funzione della sconfitta del coronavirus. Certo, l’emergenza e la paura della morte ci spingono in questa direzione, e la vita va ovviamente difesa assumendo tutte le precauzioni e le determinazioni necessarie. Ma pur in una dimensione emergenziale (“ ora si è in questa situazione e dunque non m’interessano libertà e diritti perché io voglio solo vivere”), dalla crisi si esce con la democrazia.

Non si tratta di avere il capo rivolto all’indietro e di ricercare le responsabilità dell’attuale drammatica situazione, cosa che bisognerà pur fare, ma di assumere già da oggi il principio, e di creare le condizioni perché subito si concretizzi, che la salute non è una merce il cui valore va dettato dal mercato, ma un inalienabile diritto della persona, e indisponibile all’azione di qualsivoglia governo. Ad esempio quanto a tagli per far quadrare i bilanci. Chi afferma che preferisce vivere piuttosto che rivendicare la libertà (“non mi interessa avere la libertà, se per un periodo limitato, meglio vivere che morire in libertà”) non valuta la possibilità che anche in emergenza possano e debbano coesistere diritti fondamentali e massima tutela della salute. Ci si dimentica che quell’economia che oggi viene giustamente subordinata alla vita, chiudendo la gran parte delle attività produttive per evitare il contagio, ieri veniva imposta con una concezione ragionieristica che alla salute anteponeva il rapporto debito-PIL, il patto di stabilità, le compatibilità della spesa pubblica e il pareggio di bilancio. Tutte priorità, fino a ieri, che l’emergenza ha giustamente e finalmente cancellato, ma che hanno pesato in termini decisivi, insieme all’insipienza delle leadership politiche e istituzionali, nella caduta emergenziale in cui si trova oggi l’Italia, e, purtroppo, gran parte dell’Occidente.

Il contagio in Cina, dove è nato il coronavirus, ha altre origini e sviluppi. Ma in Italia e in Occidente l’entità del contagio, e delle sue letali ricadute, non è certo dovuto al caso o al destino cinico e baro, ma a errori di valutazione, e di governo dell’emergenza (si veda la disponibilità e il numero dei tamponi utilizzati e la scelta tra sintomatici e non, i kit del tutto insufficienti, e in alcuni casi, come in Sardegna, e ancora prima in Lombardia, qualche ospedale come area di contagio, anche se complessivamente il sistema per ora tiene bene).

Da non sottovalutare inoltre quella sorta di anarchia tra Governo, Governatori e Sindaci, e conseguentemente una sorta di “fai da te“ degli Enti Locali e delle Regioni, talvolta con ordinanze che anticipano o si sovrappongono ai decreti emanati dal Presidente del Consiglio (DPCM che non hanno comunque forza di legge e non passano all’esame del Parlamento), e in qualche caso ne abrogano persino i contenuti con interpretazioni del tutto originali e persino inutili ai fini del contenimento del contagio. Qualche sindaco dimentica le proprie competenze e poteri e si atteggia a sceriffo cui è lecito emanare ordinanze che competono ad altri livelli istituzionali, o sono addirittura anticostituzionali.

La preoccupazione in questo momento riguarda anche una catena di comando e di governo che si è interrotta, o che quantomeno presenta delle fratture che vanno subito ricomposte, ma non con un atto amministrativo del Presidente del Consiglio.

Non c’è certezza alcuna, e basta documentarsi sui contrastanti pareri di virologi, infettivologi e di quanti operano in ambito scientifico, circa i modelli da adottare per evitare il diffondersi del contagio. Ma il modello di chiusura totale e di confino nella propria abitazione deve essere valutato in base al principio di proporzionalità e di efficacia rispetto all’entità del provvedimento. Una certezza che purtroppo non c’è, anche se il principio di precauzione può portare ad adottare simili prescrizioni. Salvo verifica però di efficacia e sempre rapportando le prescrizioni sulla libertà a una dimensione accettabile e del tutto temporanea, e proporzionale ai risultati.

L’attuale situazione impone comunque una riflessione che riguarda il diritto nell’emergenza, e quali poteri e limiti, le relazioni interistituzionali, il livello di accettabilità delle regole, il diritto alla contestazione delle sanzioni e la individuazione delle sedi di impugnazione, dato che si tratta di una nuova normativa straordinaria ed emergenziale. Non si è infatti di fronte a un pur importante cambiamento dello stile di vita, come taluni dicono, ma alle nuove caratteristiche e alla evoluzione in senso molto restrittivo, seppur si augura limitate nel tempo, del modello di democrazia nel nostro Paese.

Ancora non siamo in grado di valutare la durata e l’evoluzione di questi cambiamenti, sia perché neppure le istituzioni e gli esperti si espongono a fare previsioni sui tempi di riduzione e sconfitta del contagio, sia perché l’emergenza inciderà comunque in profondità nell’economia, nella società, e nelle istituzioni.

Quello che con assoluta certezza si può rimarcare è il senso di disagio e di dolore delle persone per la malattia e per i deceduti, l’impossibilità, in tantissimi casi, di manifestare l’affetto e l’amore per i cari, la solitudine, talvolta per l’abbandono, imposta dal virus e, seppure indirettamente pure dalle prescrizioni, in primo luogo per le persone più fragili e bisognose di assistenza e socialità.

Viene in mente per quanti si trovano in questa situazione e in solitudine un passo di Jean-Jacques Rousseau nell’incipit de Le passeggiate del sognatore solitario: «Eccomi dunque solo sulla terra, senza più fratelli, amici, società, salvo me stesso. Il più socievole e amante della umanità ne è stato proscritto per accordo unanime».

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Brevi appunti sulla guerra in corso

(Norbello 12 marzo 2020) Si dice che siamo in guerra. Vista la dimensione dell’emergenza sanitaria derivante dal coronavirus, è proprio vero. Si tratterebbe di discutere sul come ci siamo arrivati e perché ci si trovi a questo livello di drammatica emergenza. Ma, dicono in molti, non è ora opportuno, perché è il momento di combattere, e soprattutto di farlo uniti. Ci sarà il tempo a guerra vinta di chiedere conto degli errori fatti da chi doveva e poteva evitare, già forse da fine gennaio, e primi di febbraio, una diffusione così abnorme del virus, prima nel nord e poi nel resto del Paese. Forse è una valutazione corretta, ma bisogna anche ricordare quanto corta sia la memoria dei fatti e delle responsabilità, anche per evitare che già da oggi si riversi sui cittadini la colpa di diffondere il virus e la responsabilità di dover essi vincere questa guerra.

Certo il virus non viaggia da solo, e i cittadini debbono adottare tutte le cautele e le prescrizioni previste dalle autorità nazionali e regionali, per contribuire così a evitare il propagarsi del contagio e per bloccare in via definitiva il coronavirus, sperando anche che almeno in capo a un anno si riesca ad avere il vaccino. Ma la lezione di oggi è che questa guerra poteva essere evitata, e che in guerra ci deve essere chi ha la responsabilità di affrontarla e di comandare, orientare e di prendere provvedimenti per l’emergenza ma anche per il medio periodo, nella fattispecie sia sul versante sanitario che su quello economico, produttivo, lavorativo e sociale, senza ridurre il sistema delle libertà personali e collettive a una sorta di colabrodo.

Non è accettabile che per sconfiggere il coronavirus e vincere questa guerra si prenda a modello la Cina. Proprio la Cina, come a dire che il dispotismo asiatico, la cui assenza di trasparenza e democrazia ha non poco contribuito a nascondere e sottovalutare l’entità del problema sanitario e la possibilità di intervenire per le dovute precauzioni nel resto del mondo, contiene in sé le modalità operative ed esecutive, di controllo della gestione sanitaria, di imperativi da riversare sui cittadini, di efficienza ed efficacia nelle emergenze, di capacità decisionali supportate da conoscenze tecniche e scientifiche, migliori dei sistemi democratici occidentali.

A parte la valutazione sulla possibilità di controllare e verificare la fondatezza e veridicità delle affermazioni e delle notizie che vengono dalla Cina, ivi compresa l’esigenza di verificare se le condizioni ambientali e sociali che hanno prodotto la trasmissione e diffusione del virus sono state eliminate, e in che misura la reiterazione in altre forme di contagio virale può ripresentarsi con le caratteristiche drammatiche che stiamo conoscendo. Il rischio è che, vinta la guerra contro il coronavirus, si possa perdere quella per la democrazia e la libertà individuale e collettiva (quelle più elementari), e, forse per lungo tempo, quella economica e produttiva.

In prospettiva, ma anche per oggi, ci chiediamo se è ineluttabile che la nostra storia democratica e le nostre libertà debbano soggiacere, anche temporaneamente, ai virus di cui purtroppo conosciamo poco, che hanno conseguenze di enorme rilevanza per la salute e per la tenuta del sistema sanitario, e che ci trovano magari molto impreparati a reggerne l’urto. Non si tratta di una domanda poco opportuna, perché l’esito della nostra cultura occidentale ci porta alla inviolabilità di diritti individuali e collettivi indisponibili all’azione istituzionale, legislativa e di governo.

Trovato il pertugio, e speriamo che ci si trovi di fronte a un’eccezione storica, la diga dei diritti può subire uno scossone all’insegna delle emergenze. Le Istituzioni, vista l’entità del contagio e il tardivo intervento per contrastarlo, debbono comunque comportarsi come il capitano della nave che l’abbandona solo dopo aver portato in sicurezza e in salvo i suoi passeggeri. Questo vale per le Istituzioni nazionali e regionali. Si dirà che i provvedimenti adottati vanno proprio in questa direzione. Vedremo sul piano sanitario cosa produrranno anche nel medio e lungo periodo, e se sarà una lezione utile a sconfiggere i tagli e il riduzionismo nella sanità, e i vincoli di bilancio in Italia e in Europa.

Si tratta ora di evitare che le gravi malattie e i ricoveri importanti non vengano penalizzati rispetto alle degenze per coronavirus. Nelle nostre realtà, quelle isolane, sarebbe ancora più grave se questo dovesse accadere, visto che l’emergenza coronavirus non ha collassato fortunatamente il sistema sanitario.

Sul versante economico, sociale e del lavoro, l’operatività delle Istituzioni deve garantire non lo standard minimo, ma quello massimo, in termini di atti normativi, amministrativi e attuativi. Fermo restando che si deve lavorare in quelle sedi con il massimo delle precauzioni e con gli strumenti utili a supportare la sicurezza di tutti. È in queste occasioni che si mette in mostra l’utilità e il ruolo delle Istituzioni, perché non è corretta la politica dei due tempi, ora pensiamo a sconfiggere il virus e dopo ripartiamo con la produzione, il lavoro, la piena attività dei servizi, i pagamenti alle imprese, la spesa pubblica, le opere pubbliche.

La filiera produttiva, laddove è possibile e non risultano casi di coronavirus, non si può fermare, deve continuare studiando le soluzioni più adeguate per garantire la sicurezza ai lavoratori. Se dovesse entrare in coma l’attività produttiva dell’intero Paese sarebbe un disastro per il presente e per diversi anni. Il tutti a casa non vale per le Istituzioni, come in guerra non vale per chi deve combattere, e ancora di più per chi ha la responsabilità di governare non solo dando prescrizioni, pure da rispettare, ma anche risposte immediate per una ripresa che non inizi dopo ma subito.

Perlomeno a livello di decisioni normative e attuative, cioè da cantierare immediatamente. La scommessa del modello occidentale è di vincere ancora una volta sul versante della medicina e della ricerca, di una sanità che cura e che soprattutto attua la prevenzione, entrambe figlie dello sviluppo e del lavoro. Ma, a vent’anni dall’inizio del ventunesimo secolo, sarà una vittoria figlia delle libertà individuali e collettive, e delle implicite capacità della scienza e del progresso tecnologico, o non sarà affatto. Dovremo altrimenti correre il rischio di vivere in un’epoca dove le emergenze prevarranno sulla libertà e comunque sulla stessa salute.

Ma un’altra domanda è possibile: c’è chi, più o meno inconsciamente, pensa più che a un modello sanitario per l’emergenza a un nuovo modello di società? In tutti casi si deve considerare del tutto transitoria la prescrizione in atto per combattere il coronavirus e anche evitare un nuovo giro di vite che risulterebbe irreversibile per l’economia e per la libertà degli stessi cittadini.

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Due priorità: salute e spesa per l’economia e il lavoro

(Cagliari 9 marzo 2020) Emergenza sanitaria, produttiva e del lavoro. Due priorità assolute che la Giunta regionale deve condividere finalizzando e approvando subito la manovra finanziaria e di bilancio e accelerando pagamenti e spesa, ora in forte ritardo.

Accanto alle prescrizioni sul coronavirus il Presidente e la Giunta regionale hanno il dovere di adottare decisioni urgenti, che loro competono, in fatto di lavoro e attività produttive. È infatti inammissibile il ritardo sull’approvazione della manovra finanziaria e di bilancio per il 2020, che sta causando ulteriori danni all’economia dell’Isola, aggiuntivi a quelli indotti a livello nazionale dall’emergenza sanitaria, e i ritardi nella spesa e nei pagamenti da parte della Regione, soprattutto per quel che riguarda la spesa certificata dei fondi strutturali europei, e gli interventi utili a ridurre la disoccupazione attraverso un reale sostegno alle imprese e ai lavoratori, nonché una diversa e migliore attenzione alle vertenze in atto sul versante delle aziende in crisi (si veda tra tutte AirItaly).

Si tratta dunque di condividere con le forze sociali ed economiche, e con gli Enti Locali, un piano emergenziale per contrastare il coronavirus sul versante sia sanitario che produttivo, di recuperare subito il tempo perso sulla legge di stabilità e bilancio, adeguandoli all’emergenza in atto, e di accelerare la spesa dando immediate disposizioni a tutti gli uffici interessati, con verifiche costanti sui tempi attuativi delle procedure.

La condivisione delle risposte da dare alla crisi e alle emergenze è una scelta indispensabile per garantire il successo degli interventi e per adottare provvedimenti che realmente vadano incontro ai bisogni e alle aspettative dei sardi. Il Presidente coinvolga dunque le rappresentanze del lavoro e della economia, e si renda responsabile degli atti politici e amministrativi che competono alla Giunta regionale quanto a efficienza ed efficacia dell’Ente.

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Combattere il coronavirus e attuare un programma economico-finanziario espansivo, per tutelare i lavoratori, i pensionati, le imprese e i cittadini tutti.

(Norbello 12.03.2020) La Giunta regionale ha presentato in Consiglio regionale, con una procedura straordinaria senza precedenti nella storia autonomistica della Sardegna, e dunque senza portarla nelle Commissioni consiliari competenti, la manovra finanziaria e di bilancio per il 2020, dopo due mesi e mezzo di esercizio provvisorio.

Il Consiglio regionale, proprio per le vicende dell’emergenza coronavirus, ha approvato oggi stesso la legge di stabilità regionale per il 2020, il bilancio 2020, e tutti gli altri documenti a essi connessi, con la disponibilità dell’opposizione che si è astenuta.

Si è di fronte però, nella lettura dei documenti, a una manovra finanziaria e di bilancio del tutto ordinaria, che non tiene conto in modo adeguato e strutturato del contesto sociale ed economico dell’Isola, delle drammatiche conseguenze che sta provocando l’emergenza sanitaria nel tessuto produttivo, economico e sociale. Infatti uno stanziamento di 60 milioni per affrontare l’emergenza sanitaria non si può certo dire una risposta sufficiente.

Era indispensabile al contrario finalizzare la manovra economica, finanziaria e di bilancio al rafforzamento del sistema di prevenzione e sanitario, al sostegno delle imprese in difficoltà per il blocco delle attività, pur nel rispetto dei vincoli europei, che si spera vengano rimossi o di molto allentati, a un piano di interventi, aggiuntivo a quello nazionale, per le politiche attive del lavoro e la ricollocazione dei lavoratori attraverso il tutoraggio, l’orientamento e la formazione, a un programma pluriennale a favore dello smart working per il lavoro agile, sia nella pubblica amministrazione che nel privato, a nuovi strumenti di intervento espansivo dell’economia, a un ruolo diverso, adeguato alla crisi attuale, della SFIRS per sostenere le difficoltà delle imprese a corto di liquidità, e che non riescono a restituire prestiti per la sospensione delle attività, a individuare strumenti e procedure in grado di incidere sulla propria scarsa capacità attuativa delle norme e degli interventi e sull’accelerazione dei pagamenti e della spesa.

Nello specifico degli stanziamenti per missioni si nota, inoltre, la riduzione, rispetto all’anno precedente, dell’entità della spesa prevista per l’anno 2020 relativamente alle politiche per il lavoro e la formazione professionale, 155 milioni di euro a fronte dei 238.497.758 milioni della previsione definitiva del 2019, una riduzione della spesa per la missione sviluppo economico e competitività, con una previsione di competenza di 207.603.415 milioni rispetto ai 320.380.679 milioni della previsione definitiva dell’anno precedente. Con una quantità notevole di residui presunti al termine dell’esercizio precedente quello cui si riferisce il bilancio ( 2020): circa 84 milioni e mezzo per le politiche attive del lavoro e della formazione, e 234 milioni e 805 mila per lo sviluppo economico e la competitività. Anche la missione riguardante la tutela della salute vede una discreta riduzione; nella previsione di competenza 3 miliardi 722 milioni 933 mila 614 euro contro i 4 miliardi 158 milioni 908 mila 095 euro del 2019.

Il totale delle entrate e delle spese per il 2020 è previsto in 9 miliardi 464 milioni 455 mila 782 euro, rispetto alle previsioni dell’anno precedente cui si riferisce il bilancio di12 miliardi 241 milioni 716 mila 518 euro, con residui al termine dell’esercizio precedente cui si riferisce il bilancio di 3 miliardi 819 milioni 455 mila 223 euro. La copertura di entrata e di spesa delle missioni deriva dalle fonti di finanziamento della programmazione unitaria (UE, STATO, REGIONE).

Si tratta ora di approvare in tempi rapidissimi e anche previo confronto con le parti sociali un provvedimento legislativo e un insieme di adempimenti amministrativi e organizzativi che definiscano un vero e proprio programma di intervento economico, finanziario e attuativo rivolto a contrastare l’emergenza e a produrre effetti espansivi per l’economia, per meglio tutelare i lavoratori, i pensionati, le imprese e i cittadini tutti. Non è più tempo di provvedimenti “ una tantum “ e di ordinaria amministrazione, anche se spesso pure quest’ultima è deficitaria.