di Mario Medde

Alla fine degli anni settanta e ottanta promuovevo, come dirigente della CISL di Oristano, iniziative a tutela delle aree interne e dei comuni minori del nostro territorio. Già da allora erano manifesti i segni forti della crisi economica e demografica, e parlavamo di tendenziale estinzione di molte comunità afflitte dall’emigrazione, dall’isolamento, dalla carenza di servizi fondamentali, dalla soppressione delle scuole primarie, dall’invecchiamento della popolazione e dalla bassa natalità. Problemi che in quegli anni le rappresentanze politiche e istituzionali avevano difficoltà a capire intente come erano a coltivare idee e progetti di razionalizzazione e di compatibilità economica e finanziaria. E infatti, oggi, di fronte agli effetti di quelle politiche e del diffuso fenomeno del calo demografico che incide irreversibilmente sull’efficacia delle misure in campo, si mette in mostra una sorta di “pianto del coccodrillo”, a fronte di un vero e proprio rischio antropologico per vaste aree dell’Isola. Ripropongo qui alcuni ragionamenti già più volte fatti, ma più che attuali e aggiornati alla luce di nuove evidenze e situazioni.

È vero, il problema demografico riguarda ormai vaste aree del mondo e del Paese. Ma la nostra Isola lo vive da molto tempo per cause specifiche inerenti alla sua storia e condizione geografica. La causa non sta quindi nelle sue difficoltà a regolarsi sulla modernità, ma nel non aver affrontato, per responsabilità esterne ed interne, alcuni condizionamenti antichi e recenti.

La Sardegna si spopola più del resto d’Italia, con una riduzione del numero degli abitanti nel 2022 del 7%, e continua in questi ultimi anni con la stessa tendenza, e con uno dei peggiori tassi di natalità tra tutte le regioni del Paese.

Nel Trentino Alto Adige, Emilia Romagna e Lombardia la popolazione risulta invece in aumento. La fonte è l’ISTAT sulla base dell’ultima rilevazione demografica.

Dunque, insieme a una evidente questione sociale caratterizzata dalla povertà e da una condizione di assistenza diffusa indotta dalla crisi del lavoro, sono da evidenziare gli squilibri territoriali e lo spopolamento come l’altra emergenza rilevante della Sardegna. In particolare il fenomeno riguarda le aree interne e i comuni demograficamente minori. È questo un ambito di elaborazione, di impegno e di iniziativa che ha caratterizzato la storia della CISL sarda. L’attenzione alle aree interne dell’Isola e alle periferie, sia come dimensione spaziale che sociale, è sempre stata parte del DNA del sindacato, insieme alla rappresentanza di interessi e bisogni polverizzati e deboli, e di ambiti territoriali caratterizzati da arretratezza economica e da preoccupante povertà di vasti strati sociali. Emergenze che riguardano per altri aspetti anche le periferie degradate delle città, i diritti di cittadinanza per gli emarginati, i disoccupati e i lavoratori precari.

Il problema dello spopolamento e delle aree interne riguarda soprattutto quei territori dove l’agricoltura, la pastorizia e la ruralità non sono garanzia di competitività economica, anche per via delle dinamiche produttive, delle scelte europee e delle politiche nazionali e regionali. Qui lo spopolamento assume le caratteristiche della tendenziale cancellazione di aggregati umani e culturali. Si è di fronte infatti a una mera sopravvivenza di figure economiche, professionali e sociali, importanti invece per il presidio del territorio e per la stessa biodiversità, e a una bassissima natalità insieme all’invecchiamento della popolazione.

La conseguenza è anche la riduzione enorme della forza lavoro, soprattutto nelle aree interne (da evidenziare che in tutta l’Isola la percentuale in età di lavoro è del 48%, contro il 53% nel resto del Paese). È inoltre in atto da tempo il degrado di molte delle abitazioni che insistono nei vecchi centri abitati, e ora di fatto abbandonate.

Offrire dei bonus per incentivare la permanenza nelle aree e nei comuni dove persistono questi fenomeni è del tutto inutile se non si valutano le cause che li determinano.

L’assenza o la carenza di infrastrutturazioni materiali e immateriali (ad esempio il sistema delle reti), le difficoltà nel godimento dei servizi primari (sanità e scuola in primo luogo), il lavoro che manca per la mancanza di adeguate realtà produttive, l’assenza di norme costruttive e di riuso che evitino il degrado delle case ormai non più abitate, le irrisolte problematiche dell’allevamento, e l’assenza di politiche adeguate per le aree rurali e i comuni demograficamente minori, sono solo alcuni degli aspetti più evidenti dello spopolamento e degli squilibri territoriali. Si tratta di una caduta dei diritti di cittadinanza e di diseconomie che si aggiungono, in termini decisivi, certamente a questioni di natura culturale e a scelte derivanti dai nuovi modelli di vita, ma che, questi ultimi, non sono determinanti come causa primaria della lunga crisi delle aree interne e dei comuni minori dell’Isola.

È dunque in atto un lungo ma inesorabile processo di perdita identitaria di molti comuni i cui antichi centri vitali si stanno spopolando, nella migliore delle ipotesi con una sola persona e anziana nel nucleo familiare, e con una sorta di effetto ciambella che ha prodotto nuovi insediamenti nelle vecchie periferie, dove peraltro quasi nulla permane delle relazioni umane e sociali che caratterizzavano la comunità del paese.

Una sorta di nuova identità urbanistica, ma socialmente informe e liquida, con un processo di privatizzazione spesso senza contenitori di legami e relazioni comunitarie.

Il rischio antropologico riguarda proprio la perdita di identità di un aggregato sociale e di un ambiente minati non solo dalla trasformazione dei modelli di vita, ma anche dalle scarse opportunità che offre il territorio per errate scelte politiche e istituzionali, e che non determinano nelle persone la positiva percezione del passato e la speranza del futuro.

I dati mettono in evidenza una concentrazione demografica nelle aree urbane, con il 17,1% dei residenti che vive nei due principali centri abitati dell’isola, Cagliari e Sassari, entrambi con oltre 100.000 abitanti.

È utile evidenziare che in Sardegna su 377 comuni 258 sono sotto i 3.000 abitanti, con 528.753 residenti e il 31,6% della popolazione regionale, e che 31 comuni dell’isola rischiano l’estinzione tra 10 e 60 anni. Nel 1961 la popolazione dei comuni dell’interno era del 51% del totale regionale. Il 19,4% in più rispetto ad oggi.

L’area costiera ha avuto un aumento di più 52% rispetto allo stesso periodo. Il 90% dei comuni delle aree interne ha una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, l’83% ha una popolazione inferiore ai 3.000 abitanti. Tutti i comuni sardi ricadenti in aree periferiche e ultra-periferiche (secondo la metodologia DPD-UVAL) hanno una vocazione prettamente rurale.

Oltre all’aspetto demografico è necessario dunque rilanciare il tema delle aree interne come dimensione economica e sociale in difficoltà e sulle quali è indispensabile intervenire.

Si è di fronte ad una realtà che bisogna affrontare con provvedimenti legislativi, misure, strumenti, e impegni finanziari atti a colmare queste differenze ed eliminare o ridurre le stesse diseconomie dell’Isola, per sostenere il lavoro e le imprese, per l’inclusione sociale attraverso politiche attive per il lavoro e la formazione, per una nuova ed efficace politica di welfare. Obiettivi, che vanno programmati ed attuati con un forte coinvolgimento delle rappresentanze economiche e sociali, soprattutto in una situazione come quella dell’Isola, caratterizzata da difficoltà obiettive e vincoli di diversa natura, che per essere superati necessitano di unità di intenti, di apporti programmatici e di capacità attuative sia a livello locale che regionale.

Certo, ciclicamente, come in questi giorni, lo sviluppo più armonico delle aree interne si ripropone all'attenzione della politica e delle istituzioni, senza però trovare le adeguate risposte. Così come per il Meridione, anche per le zone interne, langue il dibattito culturale e politico sulle strategie e sugli strumenti utili ad affrontare questo problema, che è insieme economico, sociale, culturale e finanziario. D'altronde, le stesse leadership quando si affermano tendono ad emigrare nei centri dove si concretizza la vera mediazione politica e del potere. Si condiziona così e si riduce la rilevanza della rappresentanza politica e territoriale; la centralità si sposta talvolta dai bisogni del territorio alle mediazioni necessarie per il proprio "cursus honorum". Il problema delle leadership non è certo secondario rispetto a chi e come si rappresenta un'area e alla stessa crisi della politica.

È importante rimettere nel circuito sociale, politico e istituzionale queste tematiche, non tanto per tenerne accesa la fiaccola, ma per contribuire a costruire le aggregazioni necessarie a rilanciare quella che ancora oggi possiamo chiamare "vertenza per lo sviluppo e il lavoro nelle aree interne". È vero che si è di fronte a problemi e a titoli di vecchia data, ma nel frattempo sono cambiate le situazioni e le analisi, e certamente le soluzioni da dare a questi problemi.

Si è di fronte a una questione che non va parametrata sul versante dei costi, oppure omologata ad altre che registrano le difficoltà derivanti dall'attuale crisi; tutte le comunità sono da difendere e rafforzare come un patrimonio storico, culturale e ambientale, e come il luogo entro il quale si vivono e si realizzano i progetti individuali e collettivi delle persone. I paesi delle zone interne, a maggior ragione, rappresentano il presidio insostituibile di aree dove l'antropizzazione è il frutto di vicende che hanno arricchito l'Isola e contribuito a determinare in modo decisivo l'identità dei sardi.

Si tratta di promuovere le condizioni di radicamento dei giovani in queste realtà, la continuità delle attività esistenti e l'attrattività di nuove, con il mantenimento e rafforzamento dei servizi primari delle comunità (asili, scuole, strutture di socializzazione, del tempo libero e dello sport, sanità e prevenzione, biblioteche, infrastrutturazioni immateriali), con il sostegno alle attività produttive e artigianali, alla piccola industria, soprattutto quella legata alle risorse del territorio e alla innovazione tecnologica, con la conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali e ambientali in funzione di un loro godimento e dell'attività turistica e ricettiva, che valorizzi anche l'ospitalità dei centri antichi e rafforzi l'economia agropastorale.

In questa direzione diventa però indispensabile utilizzare la leva fiscale e tariffaria per ridurre le tasse sul lavoro, rendere appetibile il territorio e creare maggiore ricchezza. Sono dunque necessari nuovi strumenti e misure che, selettivamente e non a pioggia, promuovano le condizioni di maggiore radicamento nelle aree interne, bloccando lo spopolamento e l'emigrazione.

Certo, è bene ripartire senza sottovalutare né le difficoltà di scenario, cioè di quanto l'attuale crisi pesa sulla vita di tutti e sulle stesse decisioni della politica e delle istituzioni, né l'urgenza di produrre cambiamenti a partire dalle priorità del lavoro e dello sviluppo territoriale.

Non è fuori contesto rispetto ai temi trattati tornare a interrogarsi seppure brevemente sulle scelte di lunga data e anche recenti del Governo e della Regione, tutte incentrate da anni sulla logica della spesa pubblica e dei tagli. Le leggi finanziarie nazionali non si fanno carico della riduzione del carico fiscale e della tassazione sul lavoro, né dei problemi dello sviluppo e del lavoro nel Meridione e in Sardegna, non vengono inoltre rivalutate la gran parte delle pensioni, quelle superiori a una certa entità, senza peraltro reintrodurre il riallineamento con il tasso d'inflazione. Da considerare anche che in Sardegna le pensioni hanno valori inferiori a quelle del centro-nord del Paese. La lotta alla povertà e per il lavoro viene vanificata dalla inadeguatezza di politiche e misure, e dalla insufficienza delle stesse risorse finanziarie, dall'inesistenza di monitoraggi sull'efficacia degli strumenti finora messi in campo e dimostratisi nella realtà poco o nulla incisivi. Altro aspetto importante riguarda gli enormi ritardi nella spesa, sia sui fondi del PNRR che dei Fondi strutturali europei.

Non meno preoccupante, per l'incidenza che ha sulle politiche economiche e sociali nelle regioni più periferiche e insulari, è la crisi del "sogno" europeo. L'Europa dei popoli e delle regioni è rimossa non solo dagli stati, ma anche dalle coscienze delle leadership e dallo stato comatoso della pratica regionalista, che è defluita verso il peggiore modello statalista. La guida tedesca e francese della politica economica e finanziaria in Europa evolve, anche a seguito della crisi di alcuni settori trainanti come quello dell’auto, e della gestione delle politiche ambientali, in una direzione in cui si restringono sempre di più gli spazi di un'Unione realmente democratica e capace di progressiva integrazione.

Cionondimeno è necessario tenere alta l'idea e la volontà e capacità attuativa del "sogno dei sardi"; un progetto e una mobilitazione, in tutte le sedi politiche, sociali e istituzionali, per il riconoscimento dello status di insularità e, attraverso questo, conquistare gli spazi di sovranità necessari a concretizzare un autogoverno che promuova maggiore sviluppo e lavoro. Il presupposto è duplice: leadership all'altezza della sfida e una reale autonomia finanziaria; per quanto possibile, ovviamente, in un mondo dove l'integrazione economica e il sistema finanziario la rende difficile alla gran parte degli stati.

È dunque anche in questi drammatici scenari che bisogna collocare e leggere l'impegno per ridare voce, centralità e rappresentanza, nell'ambito della più generale questione Sardegna, al rilancio dello sviluppo delle aree interne e dei comuni minori dell'Isola.