di Mario Medde

Il Green New Deal

Il Green New Deal è un Piano comunitario a favore della sostenibilità ambientale. L’obiettivo è quello di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050, riducendo anche del 50% le emissioni di CO2, rispetto agli obiettivi fissati precedentemente per il 2030.Il finanziamento sarà di mille miliardi per dieci anni, quindi 100 miliardi l’anno da suddividere tra 27 Paesi.

La Commissione però ha stimato che l’obiettivo della neutralità climatica necessiterebbe di almeno 260 miliardi per anno. Quindi 2600 miliardi in dieci anni. Il Piano della Commissione prevede 500 miliardi in capo al bilancio dell’Unione nei prossimi dieci anni, 280 miliardi da InvestEu,sul modello di quello che fu il Piano Juncker( lanciato nel 2014 per invertire la riduzione degli investimenti e rilanciare l’economia), 100 miliardi dai cofinanziamenti nazionali ai fondi strutturali europei, 100 miliardi dal Just Transition Fund per la decarbonizzazione, 20 miliardi dalla revisione dei regolamenti sugli aiuti di Stato alle imprese.

Le banche nazionali e la Bei gestiranno gli strumenti finanziari necessari a reperire una parte delle risorse previste, perché dei 380 miliardi del Just Transition Fund e di InvestEu ne verranno stanziati solo trenta.

Si tratta di vedere se il nostro Paese sarà in grado di promuovere gli investimenti necessari. Il primo atto del Green Deal, il Just Transition Fund,ha reso disponibili 7,5 miliardi per la transizione degli impianti di produzione di energia inquinanti, a carbone, gas e petrolio, verso forme di generazione energetica con minore impatto ambientale.

Alla Polonia andranno due miliardi, alla Germania 877 milioni, all’Italia 364 milioni( per la conversione dell’ILVA servirebbero tre miliardi). In base al sistema della leva finanziaria gli investimenti per l’Italia salirebbero a 4,8 miliardi. Ma queste risorse non sono state ancora contabilizzate nel Bilancio europeo, e comunque l’Italia è ancora ferma al palo sul piano della programmazione, della promozione e dei progetti regionali e territoriali per rilanciare aree importanti da riconvertire.

Le stime prodotte per arrivare a una dotazione finanziaria come prevista dal Piano necessiterebbero, con il metodo delle leve finanziarie, di un moltiplicatore 13, con il Piano Juncker l’Italia ha raggiunto un moltiplicatore inferiore alla metà.(«L'ESPRESSO»)

L’Unione Europea, le imprese e il new green deal

L’emergenza sanitaria covid19 non potrà non condizionare, al di là delle sue debolezze finanziarie e di realizzazione concreta, la programmazione ipotizzata per l’attuazione del Green Deal europeo.

La Commissione sta rivedendo il suo programma di lavoro per il 2020, con un aggiornamento del Green Deal. Si parla di un documento della Commissione che verrà pubblicato il 29 aprile.

In tutti casi una riflessione si rende necessaria e riguarda il rapporto tra Green Deal e le strategie e misure immediatamente necessarie per fronteggiare l’emergenza sanitaria e produttiva in Europa e in Italia.

C’è una evidente distanza temporale tra le necessità del presente, ma anche del futuro prossimo, e un Piano Green Deal che per il momento resta un progetto politico poco o niente operativo. Non per niente il dibattito, anche aspro e duro, in Europa e in Italia riguarda altri aspetti, strumenti e strategie utili a reperire le risorse finanziarie per fronteggiare la crisi, per fare ripartire le attività produttive( queste non quelle del futuro) e per evitare che una recessione a due cifre porti via una parte importante del patrimonio imprenditoriale, soprattutto medio-piccolo( queste imprese con questi imprenditori e lavoratori).

La Commissione europea, per sostenere le imprese, ha adottato un “Quadro temporaneo per le misure di aiuto di stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del Covid19”.

Un insieme di principi volti a garantire l’efficacia degli aiuti, la caratteristica degli incentivi e la loro durata temporanea. Si tratta essenzialmente di garanzie statali ai prestiti La Commissione pare stia valutando la possibilità di una ricapitalizzazione con la partecipazione statale. Una eventualità che potrebbe riguardare alcuni asset strategici del Paese.

In Sardegna si era ventilata l’ipotesi di una partecipazione della Regione alla nuova proprietà che avrebbe dovuto rilevare AirItaly. In tutti casi, una generalizzazione dello strumento non sarebbe comunque praticabile ne augurabile, sia per gli enormi costi,tra l’altro in tempi di forte indebitamento della Pubblica Amministrazione e dello Stato, sia per il pericolo delle distorsioni che andrebbero a operare sul versante della concorrenza.

Altra cosa sarebbe uno specifico strumento di sostegno alle imprese sul versante della liquidità e dei livelli occupazionali, o come misura europea e/o nazionale e regionale. Ovviamente andando oltre la sola garanzia al credito… o forse all’ulteriore indebitamento. Anche l’adozione della modalità “ ibrida” organizzativa nella partecipazione societaria non appare adeguatamente sedimentata nella cultura imprenditoriale italiana.

Linee di strategia europea per la ripresa economica

In questa fase della vita economica e sociale, e valutando il livello di operatività del Piano Green Deal europeo e le risorse finanziarie immediatamente disponibili, ma anche le necessità impellenti dei cittadini, dei lavoratori e delle imprese, un riferimento al Piano Green Deal avrebbe un significato per così dire ideologico, di mera adesione a una pur positiva concezione del mondo, una sorta di riferimento “ letterario “.

Si resterebbe fermi ad affermazioni di principi che nessuno può negare nella loro validità ( sostenibilità ambientale e sociale), ma che non affrontano per ora i problemi ne della quotidianità, ne della complessità e neppure dei costi e dei tempi necessari per rispondere alle necessità dei cittadini e dell’economia.

Più che principi ci si trova spesso di fronte a slogan che non riscontrano però una fattibilità ed esecutività rispetto all’esistente, ne in termini progettuali e finanziari.

Cosa diversa è l’economia circolare, intendo dal punto di vista della operatività e delle opportunità da cogliere, perché si è già di fronte a un modo in essere, di concepire l’economia e la produzione. Anche se, pur di fronte a buoni risultati, sono indispensabili strumenti e misure, di natura incentivante e fiscale, e una nuova visione normativa e amministrativa per superare la dimensione lineare dell’economia a favore di quella circolare.

Pensare però che nell’attuale situazione di crisi economica e sociale ci siano le condizioni per avviare un radicale mutamento del modello economico, ma anche di vita perché di questo si parla quando si fa riferimento all’attuale modello di sviluppo da superare, significa non tenere conto che la stessa Unione Europea ha spostato di altri 20 anni gli obiettivi di Agenda 2030, e che si è di fronte a processi che richiedono condizioni, tempi lunghi ed enormi risorse finanziarie.

Si tratta ora di verificare in che misura una Unione Europea drammaticamente coinvolta nell’emergenza sanitaria ed economica, assente su più fronti,prima su quello dell’immigrazione e della presenza in Africa e Medio Oriente, sulle vicende del commercio internazionale, poi in difficoltà per la Brexit, in difesa rispetto ai sovranismi, divisa tra le ragioni del Nord e del Sud e dell’Est, silente e in ritardo sulle difficoltà prodotte dal coronavirus, possa concretamente combattere una recessione senza precedenti, con risorse ridotte anche per la Brexit, e avviare una stagione verde e una fase di nuova competitività mondiale, realizzando questa duplice transizione verso la neutralità climatica e la leadership digitale.

Avere dei sogni è importante, ma l’impressione è che si sia di fronte ad aspettative già ridimensionate e di molto, talune per la loro intrinseca debolezza ideologica, altre travolte dalla crisi e dallo stato dell’Unione, e, non per ultima, dalla volontà egemonica e dagli interessi della Germania.

Per ora la stessa mobilitazione di risorse finanziarie della Unione Europea per combattere il coronavirus è apparsa inadeguata nella quantità e negli strumenti, e in forte ritardo rispetto ai tempi utili a contrastare il contagio del virus,lasciando l’Italia da sola a far fronte a tutti i problemi connessi alla gestione di questa emergenza.

Non si tratta semplicemente di raccordare il numero dei provvedimenti adottati per evitare sovrapposizioni tra quelli europei e nazionali,ma di evidenziare la insufficienza, in molti casi l’assenza, delle decisioni necessarie a governare in Europa e in termini unitari questo drammatico evento, sanitario ed economico.

A tutt’oggi, questa valutazione viene confermata dai rinvii sulle decisioni da parte della Commissione al Consiglio dei Capi di Stato, a distanza di quasi quattro mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Governo italiano, e dalla discussione ancora in essere se utilizzare il MES, i coronabond, o altro strumento utile per garantire risorse adeguate alla bisogna.

Certo, è da evidenziare che si è intervenuti per sostenere le imprese sul sistema delle garanzie,ma ,rispetto al problema delle quantità di risorse necessarie e degli strumenti da utilizzare, è un aspetto residuale, anche parecchio rischioso perché in ritardo e comunque foriero,in questa situazione, di ulteriore indebitamento e con probabile difficoltà di restituzione.

I provvedimenti anticrisi in Sardegna

La Regione Sardegna deve prima di tutto rivedere e riorientare il Programma generale di sviluppo e la manovra finanziaria e di bilancio per il 2020, e iniziare a stabilire le coordinate politico-finanziarie per i prossimi anni.

Non si può programmare la ripresa dell’attività produttiva e della nuova normalità senza rivedere le scelte strategiche degli atti programmatori e di bilancio pre-crisi sanitaria.

Senza la bussola è facile andare ad incagliare la nave Sardegna sugli scogli, peraltro in una situazione di recessione economica che supera già le due cifre. Il costo dell’emergenza sanitaria e il rafforzamento della sanità pubblica non può dilatare ancora di più il suo peso all’interno del Bilancio regionale (oggi al 60%).

Non si tratta di scaricare i costi sulle risorse comunitarie ( quali? I fondi strutturali?) o genericamente nazionali, ma di chiedere al Governo di farsi carico, come per le altre regioni dei costi della sanità sarda, e di potenziare la sanità pubblica e le sue strutture attraverso una revisione degli attuali assetti, con un potenziamento dei distretti e della prevenzione territoriale, e con la eliminazione dei costi inutili e delle “rendite” politiche.

Data la inconsistente disponibilità e manovrabilità dei Fondi regionali iscritti in bilancio è impossibile elencare una serie di misure a sostegno delle imprese e dei cittadini senza indicare a quali coperture fare riferimento.

La riprogrammazione di una parte dei Fondi strutturali, deve essere preceduta da un’attenta verifica a che non vengano intaccate le risorse dei capitoli e delle azioni riguardanti le politiche del lavoro, la formazione e l’inclusione sociale, e pure infrastrutture utili alle comunità. Aspetto che attende una risposta visto che non è stato ancora coinvolto il Partenariato economico e sociale e che le relative delibere della Giunta regionale risalgono al 10 aprile.

In che direzione vanno le scelte della Giunta? E’ ancora tutto da dimostrare che vadano nella giusta direzione e che magari non scoprano altre parti sensibili del corpo sociale. Certo si è di fronte a una quantità notevole di risorse finanziarie disponibili in capo a tutti i fondi strutturali, e la spesa fin ora certificata lo attesta rispetto agli stanziamenti per Fondo.

Ad esempio sul FESR, a fronte di uno stanziamento di 467 milioni di euro, la spesa certificata al 29 febbraio 2020 era di 249,9 milioni di euro, mentre sul Fondo Sociale Europeo si aveva uno stanziamento di 221 milioni di euro e una spesa certificata di 115,1 milioni di euro. E si tratta di due soli fondi.

A quelle cifre è inoltre necessario aggiungere il cofinanziamento a carico della Regione, che integra ulteriormente la disponibilità in capo ai diversi assi e interventi. Proprio per l’entità delle risorse non spese è fondamentale inserire una eventuale riprogrammazione all’interno di strategie e valutazioni che abbiano lo sviluppo, il lavoro e l’inclusione sociale al centro delle preoccupazioni. Anche gli sgravi fiscali regionali per sterilizzare il costo della crisi dal conto economico delle imprese è un aspetto da valutare nella dimensione e nella successiva capacità di Enti Locali e Regione di far fronte agli impegni ordinari e straordinari, considerato che la crisi ridurrà e di molto gli introiti della Regione sul versante del gettito fiscale.

Però la Giunta Regionale può subito decidere di accelerare la spesa di tutti i Fondi strutturali(una grande quantità di soldi da spendere per lo sviluppo rurale, per l’agricoltura e la pastorizia, per il lavoro e la formazione, per l’inclusione sociale) eliminando le pastoie burocratiche, e realizzando gli obiettivi già da tempo programmati, e contraendo mutui non solo per garantire gli interventi contro il Covid19, sul quale è prioritario, però, l’apporto dello Stato, ma per avviare un piano pluriennale per le opere pubbliche e per l’edilizia residenziale.

Sul piano delle misure di integrazione del reddito o assistenziali ormai c’è una varietà di interventi nazionali e regionali che, purtroppo, non si accompagnano, come precedentemente sottolineato, a un riorientamento delle scelte previste nei documenti finanziari e della programmazione.

È per questo che le norme straordinarie a sostegno della famiglia approvate a metà aprile dalla Regione non hanno una caratteristica organica con altri interventi in essere per la lotta alla povertà, non possiedono cioè riferimenti analitici e di merito in grado di leggere sui bisogni di tutte le tipologie di famiglia. Ad esempio si escludono le famiglie con un reddito derivante da lavoro dipendente e quelle che hanno un reddito previdenziale, anche se del nucleo fanno parte dei disoccupati.Ci si muove senza riferimenti quadro in grado di garantire realmente la risposta al bisogno, evitando anche sovrapposizioni di misure e norme regionali e nazionali.

Dunque, da un lato le norme varate tamponano in ritardo e senza verifiche sociali adeguate sul fabbisogno, con duplicazioni e sovrapposizioni, dall’altro è assente, per ora, una strategia utile a garantire liquidità alle imprese in difficoltà per la crisi, al di fuori di un indebitamento ulteriore pure garantito, in questo caso, dallo Stato, con l’appesantimento dei pagamenti dei tributi rinviati di qualche mese.

Lo Stato necessita, soprattutto in questa fase di non rendere insopportabile il rapporto debito-PIL, le imprese e i cittadini di vedersi alleggerire il costo della crisi e di sopravvivere a questa terribile momento.

Senza l’intervento consistente della Unione Europea, ma senza condizioni tipo MES, e non solo per la sanità, o con soluzioni che riguardano titoli appetibili da immettere nel mercato, e con un vincolo di dilazione temporale, sarà difficile quadrare il cerchio. A meno che non si metta mano al risparmio degli italiani, sempre che questo tesoretto non si stia già consumando del tutto. Ma a pagare sarebbero sempre coloro che le tasse le hanno sempre pagate e che oggi sono il bersaglio di questa crisi.

Infatti fare ricadere sul capitale, sulle imprese e sui cittadini che non evadono le imposte il costo dei tentativi di rilancio della economia, peraltro in un momento così difficile, non porterebbe nulla di buono. Si ha infatti bisogno sia di cittadini che hanno ancora fiducia nello Stato e di capitali e imprenditori che non debbano fuggire in aree più vantaggiose a causa di ulteriori aumenti delle tasse o di patrimoniali. Si faccia pagare chi non ha mai pagato e si dia continuità alla progressività delle imposte.