di Mario Medde
Le scelte di fronteggiare l’emergenza sanitaria del Paese, da parte del Presidente del Consiglio e del Governo, trattando questioni rilevanti e di natura costituzionale, attraverso lo strumento del DPCM ( Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), e ancora prima con un Decreto Legge, ha sortito dure prese di posizione, e non solo dal punto di vista della legittimità.
Sul merito degli atti, infatti, le prescrizioni e gli obblighi contenuti, riguardando fondamentali libertà individuali e collettive, risultavano abbastanza discutibili poiché mancavano di selettività a seconda dei livelli territoriali di contagio, sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e non valutavano inoltre la individuazione di misure più adeguate e meno invasive delle libertà, e le stesse ricadute sugli interessi specifici e generali del Paese.
L’affermazione che non c’era altro da fare in termini di tempistività e urgenza, data la velocità del contagio, non coincide con un esame del cronoprogramma della crisi. Da considerare infatti che tra la dichiarazione dello stato di emergenza del Paese da parte del Governo, il 31 gennaio, e il primo provvedimento del Presidente sono intercorsi quasi due mesi; un lasso temporale enorme, alla luce sia dell’esperienza cinese che delle proposte e preoccupazioni avanzate dai primi di febbraio da più parti, e presenti nello stesso Governo, tese ad adottare subito iniziative utili a evitare o limitare il contagio in Italia.
L’utilizzo quindi dei decreti presidenziali, senza il doveroso coinvolgimento del Parlamento per valutare un più adeguato spettro di proposte , e comunque nel rispetto delle norme costituzionali e con l’adozione di una legge ordinaria, non era giustificato neppure dalla eventuale urgenza delle decisioni.
Due sono comunque gli aspetti che vanno valutati nella vicenda dell’emergenza coronavirus, il merito delle scelte adottate dal Governo (la proporzionalità, l’impatto, l’efficacia, ma anche l’intervento più adeguato e meno restrittivo, valutando anche le specificità delle aree di contagio, la dimensione delle conseguenze sociali ed economiche), e le procedure da adottare nel rispetto delle leggi, e in primo luogo della Costituzione.
Due questioni apparentemente distinte, ma saldate dalla imprescindibile necessità che la portata delle prescrizioni (libertà personale e collettiva, libertà imprenditoriale, libertà di culto) doveva imporre l’adozione di norme e procedure di governo dell’emergenza nelle leggi (nell’ambito delle leggi) e non mediante leggi, o peggio ancora mediante decreti del Presidente del Consiglio (DPCM).
Un passaggio in Parlamento, avrebbe senz’altro “parlamentarizzato“ i contenuti del DPCM, attraverso lo strumento della legge; certamente una soluzione più appropriata, ma non per approvare prescrizioni limitative della libertà e della democrazia, che hanno come riferimento fondamentale la Costituzione, e peraltro senza precise indicazioni temporali di tempestivo ritorno alla normalità. Certo, alcuni giuristi sostengono che gli atti del Presidente del Consiglio siano del tutto coerenti con il dettato costituzionale, in virtù del Decreto legge del 6 marzo che apriva poi all’utilizzo dei contestati Decreti del Presidente del Consiglio. Ma a prescindere da una interpretazione molto di comodo e discutibile, siccome tra il Decreto legge e gli atti del Presidente intercorre, come prima evidenziato, un lasso temporale notevole, e già è straordinario governare con i decreti legge, figuriamoci con i decreti del Presidente che hanno valenza amministrativa utili eventualmente a regolamentare norme esistenti, e non a variare principi di valenza costituzionale.Ma se le decisioni che modificavano aspetti decisivi in fatto di libertà le avessero adottate pure con forma di legge non avrebbero avuto comunque il crisma della legittimità, ma solo della volontà di una maggioranza. È utile il richiamo, per esplicitare meglio il concetto, a una riflessione di Giovanni Sartori sull’interpretazione puramente formale e positivistica del diritto: «Se alla legge basta la forma di legge e se, di pari passo, la legalità inghiottisce la legittimità, allora nulla vieta che il tiranno eserciti la sua tirannide in nome della legge e mediante ordini travestiti da leggi» (Giovanni Sartori, Democrazia, cosa è, Rizzoli 2007).
Taluni giuristi diventano poco credibili quando variano la lettura e l’interpretazione della Costituzione a seconda del Presidente del Consiglio e del governo in carica.Nessuna emergenza può giustificare comportamenti e atti che travalicano il dettato costituzionale e limitano i diritti di cittadinanza e la libertà. L’emergenza sanitaria autorizzava limitazioni della mobilità, ma non atti che travalicavano norme di valenza costituzionale, e comunque non la soppressione delle libertà individuali e collettive, e pure in termini generali e atemporali.
In data 30 aprile lo stesso presidente del Consiglio ha sostenuto che non era in grado di indicare date di ritorno alla normalità. Questo a distanza di tre mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza e di quasi due mesi dalle prescrizioni limitative delle libertà.
L’affermazione che bisognerà convivere con il coronavirus cosa può significare, dunque? Forse che in assenza di un vaccino in grado di immunizzare la popolazione rimangono le prescrizioni, o una parte di esse? Oppure che queste riguarderanno il distanziamento sociale, la distanza interpersonale di un metro, l’uso obbligatorio delle mascherine e dei guanti, e il consiglio di lavarsi costantemente le mani e di sanificare gli ambienti? E se dopo l’avvio della seconda fase, con la ripartenza delle attività produttive e della libertà di circolazione, seppure limitata alla regione, il virus riprendesse la sua corsa, anche se in termini più moderati? Quale strategia il Governo ha pensato di adottare? Atteso che non può aspettare di prevederla a ridosso degli eventi, come disgraziatamente è già successo. E’ evidente che il valore della libertà e della democrazia, e la stessa tenuta di un sistema economico e sociale, non possono essere condizionati dalla durata di un virus e da un vaccino la cui operatività è molto di la da venire. Stiamo sperimentando il piano A, le sue contraddizioni e carenze, ma l’eventuale piano B, speriamo non serva, non può essere un copia e incolla del precedente.
C’è chi sostiene, fortunatamente una minoranza, che non si può tornare alla normalità, intendendo che questo virus è figlio di scelte ambientali e produttive che bisogna radicalmente cambiare per garantire l’equilibrio dell’ecosistema, e che comunque bisogna utilizzare la crisi per cambiare stili di vita egoistici e all’insegna del profitto.
A parte una lettura dei fatti per niente convincente e provata, il ritorno alla normalità significa che è indispensabile restituire le libertà ai cittadini, adottando le misure precauzionali proporzionali ai fini che s’intendono perseguire, e sulla base dell’esperienza maturata, soprattutto nelle realtà dove maggiore è stata l’incidenza del contagio, a iniziare dagli ospedali, dalle RSA e dalle Case di riposo. Altrettanto importante è il ritorno alle attività produttive e al lavoro, anche qui con le precauzioni da organizzare a seconda del tipo di attività e dell’incidenza territoriale del contagio.
Abituarci a convivere con il virus non può significare che dobbiamo abituarci a vivere senza le libertà e con periodiche ma costanti sospensioni delle attività produttive. L’esplosione in forme e quantità così consistenti del contagio è stata causata dalla impreparazione e imperizia nella gestione dell’emergenza. Soprattutto nel controllo degli ingressi nel Paese, non solo quanti direttamente venivano dalla Cina, ma anche coloro che entravano attraverso Paesi terzi, dalla faciloneria demagogica di chi nel Governo e dintorni facevano a sfida per dimostrare che non si dovevano mandare in quarantena i cinesi che rientravano in Italia, dalla sottovalutazione del virus nel mese di gennaio e sino a metà febbraio, con le prime dichiarazioni degli esperti italiani che ne parlavano come di una influenza, o poco più, dall’assenza di controlli negli accessi ai pronto soccorso, dalle visite libere nelle RSA e nelle case di riposo, dagli ospedali diventati focolai di contagio, dalle interpretazioni più disparate sull’uso delle mascherine, dall’assenza di kit di sicurezza per i medici, compresi quelli di famiglia, dalla tardiva e pure poco preparata decisione di bloccare i rientri dal nord verso le altre regioni, dallo stato della sanità, per anni oggetto di ridimensionamenti e tagli, e che hanno portato allo stress l’intero sistema sanitario, dal numero chiuso a medicina e dagli organici degli operatori sanitari ridotti all’osso. Tutto ciò, accanto ai ritardi delle autorità cinesi nell’informare il mondo di quel che stava accadendo nel loro Paese, ha reso drammaticamente letale in Italia il contagio del virus. Il sistema Paese era del tutto impreparato, e non perché si sia trovato di fronte a un nuovo virus, ma perché gli investimenti fatti per garantire la sicurezza dei cittadini non contemplavano il versante sanitario, ritenuto anzi sul versante della prevenzione e del controllo territoriale un settore da saccheggiare per garantire i risparmi sulla spesa pubblica. Così pure per quel che concerne la Ricerca, mai adeguatamente valutata come strategica sia per lo sviluppo che per la sicurezza dei cittadini.
Si dirà che era ormai inutile piangere sugli errori commessi, e che per recuperare era necessario adottare prescrizioni durissime di limitazione e soppressione delle libertà e delle attività produttive. No! Quelle decisioni sono state assunte per dimostrare una capacità decisionale che fino ad allora ora era mancata, e per la incapacità di adottare misure selettive e di blocco della mobilità interregionale già a febbraio, e di obbligare già ai primi di marzo, e in tutta Italia, un tamponamento generalizzato negli ospedali, nelle RSA e nelle Case di riposo. Una mediocre gestione caratterizzata anche dalla mancata consegna dei kit di sicurezza e delle mascherine a tutta la popolazione e agli operatori sanitari.
Improvvisazione e mancanza di cultura di governo sono state quindi decisive nella pessima gestione dell’emergenza sanitaria e delle sue conseguenze nell’economia e nella società.
È vero che il coronavirus si è diffuso in tutto il mondo, e che ha trovato impreparati molti Paesi, ma la letalità che ha dimostrato in Italia ha pochi riscontri, considerato anche che il modello di contenimento adottato non si è discostato da quello cinese per la durezza delle prescrizioni e la limitazione e soppressione delle libertà. Un modello autoritario che nulla ha a che fare con le democrazie occidentali, e che ha costretto i cittadini a una improvvisa e brusca inversione sul versante dei diritti, con il Presidente del Consiglio che comunicava in tv ciò che il Governo permetteva in fatto di mobilità e di diritti personali e collettivi. Una emergenza che si protrae anche nel confronto con altri Paesi che, in ritardo rispetto all’Italia sulla fase di contagio e sulle prescrizioni, hanno deciso di ripartire riavviando le attività produttive e riducendo le prescrizioni peraltro non così limitative delle libertà personali come da noi.
Ora ci si trova di fronte a un’economia in fase recessiva come mai era capitato, e con le aziende in profonda crisi di liquidità, con lo Stato che non riesce a dare la necessaria tempestività agli interventi che pure ha deciso, con un Paese sostanzialmente fermo, e con la Unione Europea che parla di sostenere i Paesi più colpiti dal virus, ma solo attraverso prestiti su fondi dove l’Italia versa una quantità enorme di risorse, e con la Banca centrale europea che non interviene, perché non rientra nelle sue finalità, per rilanciare l’economia dei Paesi e della Unione, perché il suo compito è solo quello di sostenere l’euro. Infatti acquista titoli di stato italiani, ma non tali da garantire le quantità necessarie per fare ripartire l’economia, e comunque non ai tassi di interesse utili a evitare che questi continuino a strozzare il Paese attraverso l’ulteriore sprofondamento del debito pubblico.
Il virus, e ancora di più la mediocrità del ceto politico, ci stanno portando in una zona grigia, dove per il momento è complicato vedere non solo l’orizzonte strategico, ma anche l’utilità del passo che si sta percorrendo.
Pare che nelle carte antiche, o dell’antica Roma, le terre sconosciute venissero indicate con la scritta latina “Hic sunt leones“, a evidenziare che andare oltre significava addentrarsi in territori pericolosi e sconosciuti. Noi ci siamo già dentro, e il rischio è che i “leoni“ oltre a divorare il lavoro e i risparmi divorino anche le nostre libertà.