Per l'autonomia e lo sviluppo della Sardegna

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di Mario Medde

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Abbiamo di fronte una fase importante della vita della Sardegna: una legislatura regionale tormentata e in fase conclusiva, un Governo nazionale di centro destra che mostra notevoli difficoltà sulle emergenze del Paese, l’avvio della programmazione dei Fondi comunitari per il prossimo settennio, la gestione dei fondi del PNRR, gli effetti pesanti sulla vita delle persone causati prima dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina, la mobilitazione, che però non decolla, per il riconoscimento dello status di insularità nella Costituzione e da parte della UE, la proposta del Governo sull’autonomia differenziata, che fortunatamente è al palo, … e tante altre questioni all’ordine del giorno sui temi dello sviluppo e del lavoro.

Sui temi appena accennati, seguono, in forma sistematica e più strutturata per una più facile lettura d’insieme, delle brevi note riguardanti l’Isola, e in primo luogo l’iniziativa politica, istituzionale e legislativa della Regione e il rapporto con lo Stato.

1. Quale sviluppo e autonomia per la regione Sardegna

Da decenni ci si interroga su quale sviluppo è necessario indirizzare le scelte delle istituzioni locali e regionali, e su quale Regione, nel senso di quale Autonomia, è utile e indispensabile fondare le aspettative del mondo del lavoro, e più in generale di tutti i cittadini dell’Isola. Soprattutto nei momenti di crisi economica (o di evidente logoramento delle opzioni e delle strategie, Autonomia e Rinascita, che ci hanno guidato, pur con tante contraddizioni, questioni ancora insolute dal dopoguerra sino ad oggi) abbiamo avuto la necessità e l’urgenza di interrogarci e di volgere lo sguardo, la riflessione e la proposta sull’orizzonte e sul medio e lungo periodo, certo partendo dalle emergenze e dalle condizioni del presente.

Oggi siamo spinti ad interrogarci sugli obiettivi, sulle strategie e sugli strumenti necessari a imprimere una svolta positiva alle attuali condizioni di vita e di lavoro e all’affermazione di adeguati diritti di cittadinanza, a un più funzionale assetto delle stesse istituzioni, motivati dalla consapevolezza di vivere una fase di straordinari mutamenti nelle dinamiche economiche e politiche mondiali e nazionali, ma soprattutto da una nuova condizione del vivere, del conoscere e del comunicare, da un pessimo rapporto uomo-natura, dall’emancipazione di miliardi di persone, molte delle quali si muovono alla ricerca di libertà e condizioni di vita migliori, da un nuovo e più positivo ruolo della donna, dalla preminenza della geoeconomia sulla geopolitica, dall’imperioso avanzare della tecnologia e dal ruolo sempre più dominante della scienza in tutti i gangli della vita delle persone. Dunque, non solo il logoramento delle storiche opzioni, Autonomia e Rinascita, la disoccupazione e le difficoltà nella produzione ed equa distribuzione della ricchezza, ma pure una globalizzazione che ci spinge inesorabilmente a fare i conti, se vogliamo migliorarci, con quei problemi e con dinamiche che, solo apparentemente lontane, sono in grado però di condizionare le nostre scelte in fatto di sviluppo, di competitività della nostra economia, di più consistenti opportunità lavorative. Un nuovo sviluppo deve valutare adeguatamente l’essere parte di una Unione Europea, certo in grande difficoltà, stretta tra burocrazia e bisogni, tra sovranismi, populismi e leadership europee incapaci di proporre un’Europa più sociale e con istituzioni più democratiche, ma presente e pervasiva in ogni atto delle istituzioni nazionali e regionali e sotto l’influenza decisiva delle politiche franco-tedesche.

Quale sviluppo e quale autonomia per la Sardegna è un interrogativo che si colloca in questa sorta di calderone di questioni, da manovrare con attenzione e con delicatezza, sapendo anche che, sulla gran parte, non si è in grado di governarne le dinamiche, ma il cui impatto si può attutire, se negativo, o piegare ai bisogni dell’Isola, se sapremo leggere gli avvenimenti e dotarci di istituzioni veramente rappresentative e democratiche che costantemente interloquiscono con il sociale.

Dobbiamo interrogarci e dare risposte sulle strategie necessarie ad imprimere un’accelerazione allo sviluppo, alla creazione di nuovo lavoro per i bisogni che vengono manifestati a seguito di una lunga crisi economica e sociale, e anche per contribuire a rafforzare le scelte conseguenti alla nuova programmazione dei fondi strutturali europei e alla spendita dei fondi del PNRR.

Non è certo secondario però il nuovo assetto delle istituzioni regionali, cioè il futuro della Autonomia regionale così come potrebbe configurarsi a seguito dell’attuazione dell’articolo 43 della Costituzione. Anche la Sardegna, con la sua Autonomia speciale, non può restare immobile a contemplare le dinamiche messe in moto da alcune Regioni del centro-nord e dall’attuale Governo di centro destra, o ad attendere tempi migliori per rinegoziare il suo Statuto speciale.

Si è dunque di fronte a questioni che ci riguardano, come scenario di riferimento, come ostacoli da rimuovere, come opportunità da cogliere, come obiettivi da perseguire, come bisogni da rappresentare.

2. Lo scenario internazionale

Tutto ciò va però collocato negli scenari internazionali e nei condizionamenti che determinano nella finanza e nell’economia. In particolare, bisogna sottolineare il finanziamento del debito pubblico e il peso dei tassi di interesse, la valutazione dei rischi da parte degli investitori esteri, l’influenza della politica monetaria degli USA, che emette la valuta standard per le transazioni internazionali, i vincoli della UE sui conti pubblici nonostante le deroghe sul patto di stabilità, la fine degli aiuti della banca Centrale Europea, gli effetti, e non solo sulle borse, della guerra in Ucraina, e ancora prima a causa degli effetti della pandemia da Covid, le costanti fibrillazioni della politica mediorientale, e la cronicizzazione delle guerre tribali in Libia, la guerra in Siria, la drammatica e diffusa emergenza umanitaria nel nord Africa, l’irrisolta questione del governo delle migrazioni nel Mediterraneo, la competizione USA-CINA, sia sul versante commerciale che sul versante delle sfere di influenza nello scacchiere mondiale.

Altro aspetto importante riguarda, soprattutto in Europa, l’avvento e il consolidamento della rappresentanza politica cosiddetta populista e sovranista, con connotazioni specifiche nei diversi Paesi, ma con un comune denominatore nella difesa delle prerogative nazionali rispetto all’invadenza della UE, dei confini statuali nel fenomeno migratorio, e nell’assunzione di un modello di rappresentanza che elimina tutte le altre intermediazioni o interposizioni tra partito-movimento e popolo. Altra questione rilevante è il ruolo minoritario della Unione Europea negli equilibri internazionali, sia per la sua insufficiente identità politica e istituzionale, ancora indefinita, sia, come già evidenziato, per il peso eccessivo della Germania e della Francia, interessate più a un loro esclusivo ruolo egemone che a rappresentare i bisogni complessivi dell’Europa.

A monte però di tutte queste valutazioni, e prima ancora di un’analisi e verifica sullo stato dell’economia e della società, è necessario sottolineare alcuni aspetti di un processo con dinamiche che da anni influiscono sul modello di rappresentanza politica e sociale e sul nuovo volto della democrazia.

Un processo che ha origini complesse e che rinvia alla crisi dello stato-nazione versione ottocentesca, alla dissoluzione del concetto di popolo, che non esiste più nelle forme e nei modi della mitologia della sinistra (la classe), né in quelle tipiche dell’interclassismo del cattolicesimo democratico, alla crisi del processo di inclusione dentro il potere e lo stato, un fenomeno iniziato con Rousseau, Locke, la rivoluzione francese, l’industrializzazione, lo Stato Sociale, e con le difficoltà e la crisi del riformismo, soprattutto perché hanno perso vitalità i due puntelli della politica riformista, il Keynesismo e il Welfare State.

Tutto ciò ha portato nel tempo, complice la globalizzazione e internet, a un riposizionamento dei poteri e a un profondo e radicale mutamento della rappresentanza politica e istituzionale, e a un processo di regressione dell’inclusione a favore dell’esclusione; quest’ultimo a causa di dinamiche di natura internazionale che attengono alla divisione internazionale del lavoro, alla mondializzazione dei mercati e alla finanziarizzazione dell’economia che ha contribuito alla subordinazione della politica all’ideologia mercatista.

Si è di fronte a un aggiornamento e riposizionamento dell’idea e della pratica della democrazia. Un mutamento che ha dimensioni nazionali e internazionali. Significativo quanto già anni or sono scriveva R. Dahl: «I meccanismi decisionali dei sistemi internazionali includono gerarchie, trattative tra le classi dirigenti, e un sistema di scambio. Quello che è assente, o debole al punto da risultare del tutto irrilevante, è l’effettivo controllo democratico sui responsabili di tali decisioni».

Un aspetto questo che riguarda anche il modello di Unione Europea e il rapporto con i cittadini dei diversi stati che la compongono.

3. Sardegna: crisi del processo d’inclusione

Lungo questi scenari la Sardegna ne vive i forti condizionamenti, e subisce soprattutto gli aspetti negativi della globalizzazione e le difficoltà di una economia nazionale che da anni, con poche fasi di crescita, alterna recessione e stagnazione, con il peso di un consistente debito pubblico. Ciononostante in Sardegna abbiamo conosciuto un lungo processo di inclusione e integrazione. Oggi però si è di fronte una crisi di questo processo che dura ormai da molti anni. Hanno senz’altro pesato le cicliche difficoltà dell’economia internazionale, il declino industriale del Paese e il sostanziale fallimento del processo di industrializzazione dell’Isola, il permanere delle storiche diseconomie infrastrutturali materiali e immateriali, e soprattutto, sul versante propositivo, programmatorio e attuativo, da trent’anni circa, l’esaurirsi della spinta propulsiva delle opzioni forti dell’Autonomia e della Rinascita.

La Regione, proprio perché espressione funzionale e rappresentativa di quelle stagioni politiche e istituzionali, ha enormi difficoltà ad avviare un nuovo processo di unificazione, integrazione, inclusione e uguaglianza. L’Ente Regione va per questo rivisitato (anche riaprendo il confronto Stato-Regione e ridiscutendo i rapporti interni centro-periferie) sul versante del modello organizzativo e funzionale e su quello dei poteri e delle competenze, ripensando anche il rapporto con i Comuni e lo stesso modello di Ente territoriale intermedio. Aspetti, questi, fondamentali per uno sviluppo economico e sociale equilibrato e per concretizzare i diritti di cittadinanza, soprattutto in una fase di perdurante difficoltà dell’economia e del mercato del lavoro.

4. La ripresa economica e produttiva è ancora lontana

Gli indicatori economici e produttivi, quelli sociali e del mercato del lavoro attestano infatti una situazione di sostanziale difficoltà e crisi. Nonostante alcuni segnali di ripresa in alcuni indicatori, (PIL, occupazione, ma essenzialmente precaria, con un tasso di disoccupazione ancora molto alto), una lettura pluriennale dei dati evidenzia il permanere di una crisi produttiva che non consente di ritornare al periodo precrisi. La Sardegna resta infatti tra le regioni più povere della Unione Europea, con un PIL al di sotto della media UE, e con una forza lavoro in diminuzione, e con una occupazione fortemente caratterizzata da lavoro precario e stagionale. Da sottolineare inoltre il livello mediocre e inadeguato delle infrastrutturazioni materiali e immateriali dell’Isola, che penalizzano oltremisura la capacità competitiva del sistema Sardegna. La spia di questa difficile situazione, e del perdurare di una lunga crisi economica e sociale, è la disoccupazione giovanile e lo scarto reddituale generazionale, il decremento demografico, l’emigrazione dei giovani laureati e diplomati, l’abbandono e la dispersione scolastica, la disoccupazione di lunga durata.

Da evidenziare come ulteriore e non secondario problema la questione ormai cronica dello spopolamento delle aree interne e dei comuni demograficamente minori; certamente non risolvibile con soluzioni estemporanee, ma con il miglioramento dei servizi primari (sanità, scuola, trasporti), con specifici programmi e interventi a favore dell’agricoltura e dell’allevamento, del turismo, della piccola e media industria, con nuove misure e strumenti a favore del lavoro dei giovani, sostenendone la permanenza con incentivi per le loro abitazioni, e valorizzando e rivitalizzando le comunità sul versante dei beni ambientali e culturali.

5. Rimuovere i vincoli esterni ed interni all’Isola

L’obiettivo primario è quello dunque di dare maggiore competitività al sistema economico e produttivo regionale, in un quadro di migliore e diffusa crescita sociale. Si tratta di rimuovere i vincoli esterni ed interni al processo produttivo, o quanto meno di ridurne la portata. Taluni hanno natura e origine esterna, altri sono tutti interni ai nostri ritardi, individuali e collettivi. Sul primo punto i temi sono quelli del fisco, della contribuzione, dei trasporti e della mobilità (quindi del peso della insularità) delle infrastrutturazioni materiali e immateriali, dell’accesso al credito, della Pubblica Amministrazione, della scuola e della formazione. È invece responsabilità tutta interna quella connessa alla programmazione dello sviluppo (contenuti, tempi e modalità attuativa, efficienza ed efficacia degli interventi, ruolo della burocrazia), alle riforme istituzionali e in primo luogo della Regione, alle politiche delle risorse umane, della formazione e dell’istruzione, alle politiche di settore e territoriali (socio-assistenziale- sanitario, ambiente e territorio, edilizia e costruzioni, mercato del lavoro e inclusione sociale, beni culturali e identitari, agricoltura e allevamento, pubblica amministrazione, servizi primari, sviluppo aree interne, questione urbana, aree costiere).

6. Urgenza di una visione riformatrice e inclusiva

Si è di fronte a obiettivi per i quali bisogna comunque avere una chiara visione del futuro. Pure in tempi così tumultuosi, e, per ricordare quanto detto da Rifkin in altri tempi, «mentre su gran parte del mondo sta scendendo l’oscurità, e a molti uomini manca un chiaro orientamento», è indispensabile avere una strategia e coltivare “un sogno”. Un’aspettativa e una visione che dal presente s’irradia nel futuro. Come nel passato, quando quel sogno di cambiamento ha fatto riferimento politico e operativo a un riformismo che ha storicamente accompagnato il processo d’inclusione di vasti strati sociali, e ha trovato riferimenti forti e decisivi, pur nella loro diversità, nel socialismo delle diverse opzioni politiche, nel laburismo cristiano, nel sardismo, nell’originale presenza del sindacalismo confederale, che hanno coniugato crescita economica e giustizia sociale, efficienza ed equità, centralità delle istituzioni e ruolo della intermediazione e regolazione sociale, così oggi diventa indispensabile andare oltre i vincoli e i limiti posti dal presente per ridare spazio e vigore alla politica come luogo del cambiamento delle odierne condizioni di vita e di lavoro e delle concrete speranze per il futuro.

La domanda che ci si pone è quali siano gli spazi di reale, positiva e autonoma agibilità della politica nella dimensione nazionale e locale, a fronte di rigidità e condizionamenti che provengono dalle attuali caratteristiche dell’economia e della finanza internazionale e da una totale integrazione dei mercati, quasi fossero una configurazione dello spirito e non una costruzione giuridico-economica degli equilibri di potere dentro le istituzioni che governano l’economia e la finanza globalizzata.

La risposta è che dunque bisogna trovarsi nelle condizioni politiche, economiche e finanziarie tali da evitare le conseguenze e i rinculi dell’arma che si utilizza. Nel caso dell’Italia si è soggetti a rinculi preoccupanti, per via del debito pubblico finanziato attraverso il ricorso agli investitori internazionali, del rapporto buoni del tesoro e bund tedeschi che stabilisce l’aumento o il decremento dello spread, dei vincoli posti dalla UE, in primo luogo per anni il vincolo di non superare il 3% del PIL sulla spesa pubblica, il ruolo ormai decisivo della Banca centrale europea nelle politiche monetarie. Un’alternativa seria, equilibrata e percorribile, ad esempio, sta nel liberare in termini stabili la spesa per investimenti dal vincolo del 3%, con un rapporto equilibrato tra debito pubblico e spesa per investimenti, come peraltro attuato nella fase pandemica. La stagione dell’austerità prima, della pandemia e della guerra in Ucraina ora, hanno contribuito infatti in tutti questi anni agli effetti negativi e moltiplicatori della crisi economica e sociale, e hanno impoverito il ceto medio e incrementato il bacino della povertà relativa e assoluta in Italia e in Europa.

Certo, i conti in ordine sono decisivi e importanti nel reggere le sfide della globalizzazione e per competere e crescere senza cadere nelle spesso violente oscillazioni finanziarie, e per non diventare ostaggi degli investitori internazionali. Ma bisogna anche evidenziare che le economie con i conti in ordine, con un debito pubblico non eccessivo, sono molto rare. Il problema del debito è la sua sostenibilità, o attraverso il controllo o con economie che hanno comunque una lunga storia di prevalenza politica nello scacchiere internazionale e di aggressività delle loro multinazionali, quindi di vera e propria leadership nella divisione internazionale del lavoro, oppure ancora con un’economia talmente forte da finanziare in casa il loro debito.

7. Contro il liberismo per la centralità della persona

Sono dunque evidenti, soprattutto in tempi di crisi economica o di scarsa crescita, i limiti e le difficoltà delle politiche espansive e riformatrici, soprattutto quelle rivolte a rilanciare lo sviluppo e l’inclusione sociale. Si è di fronte però a un limite culturale, interiorizzato in anni di liberismo economico e di primazia della finanza sulla produzione di beni e servizi, e che ha portato, lo ripetiamo ancora una volta, a concepire il mercato come una configurazione dello spirito e la finanza abilitata a officiarne il culto, soppiantando la funzione della politica come arte e pratica di governo e soluzione dei problemi. Eppure è possibile e indispensabile oltrepassare questa concezione ideologica, quasi religiosa dei vincoli finanziari e mercatisti, e andare oltre queste “colonne d’Ercole“, per ricollocare soprattutto la persona al centro del governo della cosa pubblica e dell’azione politica.

Scrive Francesco Saraceno nel suo saggio La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia: «Non esistono ricette universali né politiche sempre e comunque superiori alle altre; gli economisti dovrebbero smettere di vendere questa pericolosa illusione alle opinioni pubbliche e ai responsabili politici».

8. Attualità della questione sarda. Rilanciare la specialità

Lungo queste riflessioni, una nuova stagione politica, istituzionale sociale dell’Isola passa attraverso la riproposizione della questione sarda e il rilancio dell’autonomia e del rapporto con lo Stato e l’Unione Europea.

L’autonomia differenziata, così come proposta da diverse Regioni, e ora dal Governo di centrodestra, non è la risposta adeguata a soddisfare le domande di maggiore efficienza ed efficacia della pubblica Amministrazione, di giustizia sociale ed equilibrio tra i territori, di rappresentanza delle diversità storico-culturali e delle specialità istituzionali storicamente riconosciute.

Rilanciare la questione sarda e la sua specialità presuppone anche la necessità di dare un giudizio sui problemi posti dall’attualità politica in tema di regionalismo differenziato.

Infatti, il regionalismo e l’autonomia differenziata così come previsti nella legislazione di cui agli articoli 116 c. 3, 117,119,120, rischiano di portare alla frammentazione del corpo dello Stato in giurisdizioni regionali sul modello statuale (più piccoli e altrettanto centralisti: si veda l’esperienza delle regioni a statuto speciale), senza cambiare la natura rispetto ai principi di sussidiarietà territoriale (ripartizione poteri, funzioni e risorse in un modello di “federalismo interno” rapportato agli ambiti regionali).

Il modello di autonomia partecipata e solidale deve contestualmente consentire il trasferimento delle funzioni e dei poteri dello Stato alle Regioni e da queste ai comuni ed agli enti intermedi.

L’autonomia che si realizza all’interno delle Regioni è la condizione per affermare un nuovo modello, non solo procedurale, ma di reale democrazia dove la formazione della volontà collettiva sale dal basso verso l’alto (sussidiarietà ascendente), coinvolgendo nella fase ascendente comuni, enti intermedi, Regioni e Stato.

D’altronde era questo spirito della riforma costituzionale che con il titolo V° dell’articolo 114 sanciva : «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». La costruzione del consenso dovrebbe infatti avere come obiettivo il risultato di un’equa ed equilibrata distribuzione della ricchezza.

In questa direzione è fondamentale il ruolo di regolazione delle istituzioni, Stato, Regioni, Comuni, e la pratica del principio di solidarietà e uniformità. Ecco perché è indispensabile normare i LEP (Livelli essenziali delle prestazioni) e approvare le leggi di principio delle materie concorrenti e quelle su uniformità dei diritti civili essenziali, e garantire contestualmente il superamento degli storici divari Nord-Sud, soprattutto nei primari diritti di cittadinanza.

Lungo queste brevi, e certo men che meno esaustive riflessioni, accanto ad alcuni obiettivi di breve e medio periodo su richiamati, la Sardegna ha la necessità di proporre o di ribadire una nuova idea e pratica del riformismo per i prossimi anni, certo con le compatibilità e i vincoli degli scenari evidenziati, ma accettando anche la sfida di cambiamento, senza cadere nel velleitarismo.

La questione sarda va però riproposta nei suoi obiettivi attuali e concreti, avendo come riferimento alcuni principi fondamentali:

a) La soggettività del popolo sardo e il riconoscimento della sua identità-diversità nella costruzione di un nuovo rapporto con lo Stato, a partire dalla riscrittura dello Statuto, e di un nuovo assetto cooperativo e solidale delle istituzioni dell’Isola. Rilanciare la specialità della Sardegna è infatti un obiettivo urgente e necessario.

b) Un nuovo modello di democrazia e una Regione che, insieme agli Enti Locali, sancisca la partecipazione dei cittadini alle scelte e alla formazione della volontà pubblica.

c) La programmazione dello sviluppo e del benessere sociale che affronti anche il problema dell’accumulazione e della distribuzione della ricchezza nell’Isola; in particolare l’acquisizione, la disponibilità e l’utilizzo delle risorse, la sussidiarietà nella promozione dello sviluppo locale e regionale, i soggetti, gli strumenti, gli obiettivi e l’efficacia del ciclo unico di programmazione.

d) Il rapporto Regione-Stato-Unione Europea come questione che attiene anche a un patto con lo Stato e ai contenuti del nuovo Statuto.

e) Il riconoscimento dello status di insularità da parte dello Stato e dell’Unione Europea e le conseguenze legislative ed economiche, anche sul versante dei nuovi poteri e non solo delle risorse finanziarie.

f) Il lavoro dignitoso e retribuito come condizione dello sviluppo e dei diritti di cittadinanza.

8. Rilanciare il valore del lavoro

Insieme al problema dell’Autonomia e al nuovo rapporto Stato-Regione-Unione Europea, la centralità del lavoro e del suo valore è l’altro aspetto predominante.

Infatti, la gran parte degli indicatori del mercato del lavoro in Sardegna registra non solo la crisi dell’economia isolana e la disoccupazione a due cifre come dato permanente, ma anche la precarizzazione e la perdita di valore del lavoro, sia in senso lato rispetto alla dignità della persona che sul versante di numerose configurazioni giuridiche normative.

Si riduce, inoltre, e sempre di più, il reddito da lavoro, e si assottiglia la sua disponibilità come quantità da impegnare per fronteggiare le necessità primarie della vita quotidiana.

La disoccupazione, in primo luogo, e poi il lavoro precario, causano ferite indelebili nella vita delle persone, minano i progetti e le speranze dei giovani e la stessa stabilità delle famiglie. Le fondamenta di una dignitosa vita quotidiana vengono compromesse dall’impossibilità di costruire, anche passo dopo passo, un proprio e soggettivo percorso esistenziale, spirituale e materiale. Il liberismo senza freni, la globalizzazione senza regole adeguate a controllare il potere della finanza, la competizione solo per costi, e non per la qualità dei prodotti, che spinge le multinazionali a localizzarsi dove esistono, anche nella UE, livelli retributivi molto bassi, la eccessiva flessibilità del lavoro, la finanziarizzazione dell’economia, il rigido vincolo del pareggio di bilancio piuttosto che l’investimento sui diritti della persona, la crisi dello Stato-nazione e le difficoltà nelle interlocuzioni frontali per dare soluzioni ai problemi, sono alcuni degli aspetti che hanno portato alla crisi della politica come autonoma capacità di governare le scelte della cosa pubblica a favore della giustizia sociale e della speranza di positivo cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro.

Non è solo la società che diventa più liquida, è l’insieme dei diritti di cittadinanza che è messo oggi a dura prova. Marshall Berman scrisse anni or sono un libro, con un titolo preso in prestito da una frase di Carlo Marx e Friedrich Engels: «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria»: un saggio sulla modernità e sulla potenza creatrice ma devastante del capitalismo. Una frase e un’immagine che riassumono emblematicamente la dissoluzione di ciò che più amiamo, libertà e diritti sociali, a causa di una concezione eccessivamente economicistica e liberista della nostra società.

L’assenza di valori supremi, oltre l’immediatezza e il calcolo del solo profitto, ha fatto smarrire il valore del lavoro e quello della persona. Ha scritto Ernesto Balducci nel saggio La terra del tramonto: «… Sulla polvere dei profeti passeggiano i ragionieri. Le coscienze sono sempre di più prigioniere di un presente che si è svincolato dal passato e dal futuro, ripiegate su se stesse, in preda a una soggettività senza destinazioni universali».

Sembrano trascorsi secoli, e invece sono pochi lustri, da quando la civiltà del lavoro era sotto attacco su un versante totalmente diverso, quello della critica al lavorismo e dell’alienazione da lavoro, e si teorizzava persino “l’ozio creativo” e la necessità di promuovere in alternativa la cultura del tempo libero. Ma il lavoro, da valore e simbolo di forza e rappresentanza ha perso la sua consistenza e unicità; ora esistono i lavori e la frantumazione di quel mondo riflette la debolezza strutturale della politica, o almeno di quella parte che aveva (ha?) l’ambizione di rappresentarla sul versante politico, e che comunque da lì storicamente proveniva.

Una svolta importante e necessaria impone ora di riunificare il lavoro (i lavori) intorno a valori e idee-forza, orientare il cambiamento, suscitare passioni, ricostruire la politica sui valori della persona e rimettendo insieme l’“homo democraticus” e quello “economicus“ (e non “riducendolo definitivamente ad atomistica entità tecnico-economica”), organizzare i diversi soggetti che si muovono in quella parte che si vuole rappresentare. Il punto di vista del lavoro, della sua rivalutazione, e dei diritti-doveri ad esso connessi, coniugati con formazione, saperi e conoscenza, sono infatti la base per ridare centralità ai valori dell’autostima, dell’indipendenza, della realizzazione personale, del rispetto individuale e sociale, in una parola di quella dignità della persona che è al centro di una società fatta di vera libertà e giustizia.

Anni or sono le Edizioni Lavoro pubblicarono un volumetto dal titolo La politica e il dolore. Alcuni passaggi hanno, alla luce di quel che oggi accade sul versante elettorale, in Italia e Sardegna, un valore profetico. Nella parte conclusiva della presentazione Franco Riva scrive: «Il dolore attraversa la politica, e dunque “governare il dolore” non può significare soltanto gestire le situazioni o le emergenze che lo riguardano, ma anche correggere le politiche che lo producono». E continua dicendo che al dolore bisogna dare concretamente voce attraverso la progettualità politica, e con la sua instancabile correzione, per evitare che esploda dal basso l’esasperazione della sopportazione.

Con la seconda Repubblica si è teorizzata, anche sul versante elettorale, l’alternanza degli schieramenti al potere della cosa pubblica per superare le distorsioni e i consociativismi della prima. Ma una reale alternanza necessita di grandi e chiare alternative tra modelli di società. La rappresentanza politica del mondo del lavoro, o almeno dei problemi posti da questa parte, ha evaso questo intendimento annegando in una sorta di pensiero unico, adattandosi allo spirito del tempo impersonato dalle presunte compatibilità economiche e contabili, spesso dalla centralità delle borse e delle banche, dagli insuperabili vincoli di bilancio, dal blocco degli investimenti per non superare i diktat europei, dalla subordinazione della politica all’economia.

Di questi tempi si è costretti ad attraversare il deserto. Dalla parte del valore del lavoro e di quello che ciò comporta e produce. Un viatico indispensabile per avere la forza e la passione necessaria a coltivare la speranza di raggiungere gli obiettivi di maggiore giustizia sociale e libertà.

9. Politiche strutturali contro le povertà

È dunque prioritario avviare politiche strutturali contro le povertà. Alcuni fenomeni ormai quasi endemici non sono certo risolvibili con il reddito di cittadinanza nelle forme e contenuti recentemente approvati e pure modificati negli ultimi mesi. Si pensi alla portata della crisi economica, della disoccupazione di massa, della desertificazione produttiva ed industriale, della pressione fiscale senza precedenti per famiglie e imprese; una situazione drammatica che annuncia stagioni ancora più difficili per la Sardegna, qualora non si corra ai ripari con interventi utili a contrastare le povertà, l’assenza di lavoro e il venir meno delle tutele socio-sanitarie.

10. Le povertà materiali

In Sardegna, sulla base di alcuni indicatori quali tasso di disoccupazione, ammortizzatori sociali straordinari ed in deroga, e di una valutazione empirica, il numero di famiglie senza reddito da lavoro supera il numero di 120 mila su un totale di 700 mila (726.348) famiglie. Da tenere in considerazione che l’incidenza della povertà relativa delle famiglie nell’isola riguarda un numero di circa 124.205 unità.

11. Povertà di competenze

La popolazione 15-29 anni, né occupata né inserita in un percorso formativo o di istruzione, è in Sardegna al 27,6%. I giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio sono il 25,1%, in Italia il 18,1%. Il tasso di partecipazione al sistema di formazione e istruzione, nella fascia di età 15 29 anni è in Sardegna all’80,1%, in quella 20-29 anni al 18,9%. Per completare lo scenario del disagio sociale e giovanile nell’Isola è indispensabile sottolineare il tasso di disoccupazione nella fascia di età fino ai 29 anni, ormai oltre il 40% degli attivi. È in questo quadro d’impoverimento complessivo, di forte disoccupazione e precarietà, di deficit formativo, che è necessario collocare l’urgenza di investire nel lavoro, nelle competenze, nella formazione e nell’istruzione e in tutta la filiera della conoscenza. È dunque il tempo delle politiche attive del lavoro e della formazione per sostenere una nuova fase di sviluppo e per ridurre in tempi rapidi la disoccupazione e la povertà, in primo luogo quella derivante dalla disoccupazione giovanile. La gran parte dei fondi europei deve essere destinata in via prioritaria a questi obiettivi. La Regione e in grado, se lo vuole, di garantire efficienza efficacia e tempestività. La buona politica è in grado se lo vuole di garantire una burocrazia al servizio del lavoro dello sviluppo. La buona politica dunque è la prima condizione per invertire il senso di marcia promuovere la crescita e lavoro ed incentivare la “vita buona”.

12. Rafforzare le politiche a favore della terza età

La povertà relativa e assoluta è un fenomeno che coinvolge un numero importante degli anziani. In Sardegna un indicatore che ne rileva la dimensione è il reddito previdenziale. Sulle pensioni di vecchiaia l’importo medio mensile regionale è di 1.090,34 euro (importo calcolato lordo); una soglia di reddito che coincide con quella individuata per la povertà relativa (1.085 euro per un nucleo composto da due persone). Per quel che riguarda le pensioni assistenziali, il dato medio mensile degli assegni sociali è di 408,97 euro, mentre per gli invalidi civili è di 426,44 euro. Si tratta certo di considerare il reddito del nucleo familiare, ma data la storia assicurativa e lavorativa dei lavoratori sardi, caratterizzata da disoccupazione e ammortizzatori sociali, e per le donne da un forte impegno per la cura familiare e nel lavoro spesso da retribuzioni purtroppo e ingiustamente di molto inferiori a quelle dei maschi, gli indicatori sopra richiamati rappresentano comunque un riferimento importante per evidenziare quanto pesa la povertà materiale tra gli anziani.

13. Maggiore capacità attuativa della Regione

Le risorse dei fondi europei per gli anni 2021-2027, soprattutto quelle del Fondo Sociale europeo (a parte i ritardi attuativi), devono essere utilizzate per la formazione, l’acquisizione e l’aggiornamento delle competenze, per una vera società della conoscenza, e per un piano per il lavoro, non assistenziale, che consenta a migliaia di giovani di impegnarsi in attività di valorizzazione risanamento e tutela dell’ambiente, dei Beni Culturali archeologici e identitari della Sardegna, in programmi di intervento sociale a favore delle famiglie, degli anziani e dei non autosufficienti. Sui Fondi strutturali è però indispensabile intervenire non solo in fase di programmazione, ma anche e soprattutto durante l’attuazione delle misure e delle azioni, e sui tempi che inesorabilmente scivolano nel lunghissimo periodo, senza valutare la rilevanza della scansione temporale in rapporto ai bisogni. Inoltre, si tratta di semplificare al massimo le procedure attuative, esageratamente complesse, che creano difficoltà non solo di tipo gestionale, ma anche in termini di efficienza ed efficacia delle azioni messe in campo. Altro aspetto fondamentale riguarda il monitoraggio della spesa e sui risultati, che debbono incidere sia nella programmazione che sugli esiti dell’impatto finale delle risorse comunitarie. Il guaio è che queste ultime hanno totalmente sostituito le risorse ordinarie sulla quasi totalità dei capitoli di spesa, a eccezione di quella sanitaria. Il che pone altre questioni di non poca rilevanza e riguardanti i trasferimenti dello Stato, gli enormi accantonamenti obbligatori, l’esigenza imprescindibile per il sistema Sardegna di creare maggiore ricchezza, e i vincoli posti dalla insularità.

Sul piano più strutturale è allora indispensabile avviare politiche di settore e territoriali, in grado di rafforzare le imprese, riducendo o eliminando le diseconomie esterne al processo produttivo (energia, trasporti, assetti idrici, servizi alle imprese e lacci e lacciuoli della pubblica amministrazione) intervenendo sull’eccessivo carico fiscale, avviando una strategia di livello regionale sul credito e sul rapporto con il sistema bancario.

14. Una nuova politica per l’impresa

Solo così, infatti, l’impresa sarà messa in grado di produrre e competere a prezzi e costi competitivi, avvalendosi anche dell’incremento di organico e delle competenze promosse con adeguati programmi formativi. È in questo scenario, che il sostegno alla autoimprenditorialità ha senso e può produrre effetti positivi per l’economia e lavoro.

15. Creare maggiore ricchezza

Il problema della disponibilità delle risorse finanziarie va affrontato riducendo gli sprechi e riformando le politiche di settore e il sistema socio-sanitario per migliorare gli interventi sulla sicurezza sociale, eliminando duplicazioni di diversa natura relative alla burocrazia regionale, ristrutturando l’Ente Regione ma anche rinegoziando con lo Stato il trasferimento di quanto dovuto alla Sardegna sul versante dei diritti erariali e tributari, sostenendo la ripresa e il rilancio dello sviluppo. Solo così sarà possibile combattere la lunga fase di crisi economica e quella sorta di assuefazione, che condiziona negativamente l’intero sistema isolano.

16. Il riconoscimento dello status di insularità per un nuovo sviluppo

L’insularità, cioè la condizione che noi viviamo come Sardegna e sardi, è una questione che ci interroga tutti, soprattutto in una fase di lunga e grave crisi economica e sociale, poiché incrementa le diseconomie interne ed esterne ai processi produttivi, evidenzia la carenza delle infrastrutturazioni materiali e immateriali indispensabili per lo sviluppo, limita la mobilità e la libertà di movimento, e senza il riconoscimento fattivo delle pari opportunità trasforma l’assenza di contiguità territoriale in un pesante vincolo allo sviluppo della Sardegna. Quantificare i costi dell’insularità, a causa dell’assenza delle pari opportunità, non è facile. Il CRENOS parla di un miliardo e cento milioni di euro, uno studio di Franco Meloni (Riformatori) li determina tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro. Certo è che pesa in modo abnorme sui processi dello sviluppo, sui diritti dei cittadini sardi, sulla competitività delle imprese.

Il tema dell’insularità, dei problemi e dei vincoli che questa condizione pone, ma anche delle potenzialità e delle caratteristiche geografiche, storiche, culturali, linguistiche ed etniche, è da molto tempo parte integrante della proposta di diverse forze politico-sociali per lo sviluppo e il lavoro della Sardegna È una questione che appartiene alla elaborazione e alla iniziativa di politica sindacale e che ci ha visto in diversi tempi confrontarci con i sindacati delle isole dell’Europa e con le istituzioni europee per trovare una comune linea di proposta e azione e per tentare di incidere in Europa sul destino dello sviluppo e del lavoro nelle isole. La nostra è infatti una condizione comune a diverse altre realtà dell’Europa. Sulla base della definizione di isola adottata da Eurostat, e con l’utilizzo di alcune convenzioni aggiuntive, si giunge a identificare un elenco di 286 territori insulari popolati da quasi 10 milioni di abitanti su una superficie di 100 mila chilometri quadrati: rispettivamente il 3 e il 3,2 % dei corrispondenti valori dell’Unione Europea. Il prodotto interno lordo di questi territori rappresenta il 2,2% del prodotto interno lordo dell’Unione Europea, mentre il prodotto interno lordo per abitante raggiunge circa il 72% della media dell’Unione. La maggior parte delle isole si trova nel Mediterraneo (Italia e Grecia). La ripartizione della popolazione per territorio mostra al primo posto la Sicilia, con il 53% del totale, seguita dalla Sardegna con il 17%. Mentre la ripartizione per Paese evidenzia come oltre l’80% degli isolani si trovano in Italia. Gli indicatori socio-economici (reddito pro capite, tasso di disoccupazione, dotazione infrastrutturale, livelli di istruzione, etc.) pongono, in generale, le isole in una posizione di maggior svantaggio. La prosecuzione dell’analisi mostra, tuttavia, che a queste caratteristiche comuni si contrappone, sotto altri aspetti, una situazione piuttosto differenziata. Le isole d’Europa presentano un diverso grado di eterogeneità dal punto di vista demografico, orografico, della dimensione, della distanza dal continente, oltre che da quello politico e amministrativo.

È questa una fase particolare e difficile per la Sardegna, per l’Italia e per l’Europa. Cionondimeno è proprio nei momenti di crisi che si possono aprire spiragli importanti e soluzioni nuove sulle rotte dello sviluppo. Il riconoscimento dello status di insularità è una opportunità che va perseguita e accolta in sede europea, nazionale e codificata anche in Sardegna. Dunque dobbiamo agire su queste tre direttrici perché il riconoscimento delle pari opportunità diventi una responsabilità certamente dello Stato, attraverso l’inserimento nella Costituzione, ma anche della Unione Europea, per i vincoli che ci pone sui temi dello sviluppo e del lavoro, del sostegno alle imprese, della mobilità delle persone e delle merci, e per una forte integrazione normativa della quale non si può prescindere. Noi, come sardi e isolani, dobbiamo fare la nostra parte, attraverso l’assunzione di comportamenti e scelte politiche e istituzionali, anche sociali, utili a garantire l’efficienza e l’efficacia delle istituzioni in fatto di programmazione dello sviluppo, di capacità di spesa, di attuazione degli obiettivi. L’esperienza dei Piani di Rinascita ci dice che è indispensabile considerare anche la valenza dei comportamenti e delle nostre scelte, e il ruolo delle Istituzioni. È un problema questo che deve trovare riscontro anche negli assetti istituzionali e dunque in una profonda rivisitazione del modello di Regione, che incide pesantemente sulla programmazione e l’attuazione degli atti connessi allo sviluppo e al lavoro.

L’insularità va trattata dunque non solo come condizione di disagio, da cui conseguono interventi finalizzati al recupero dei divari e delle condizioni di arretratezza, aspetti peraltro già presenti, anche se non valutati, nel Trattato che istituisce la Costituzione europea, ma pure sul versante di un solido aggancio costituzionale per quel che riguarda appunto l’insularità e gli statuti speciali nella Unione europea e come proposta di statuto positivo. I presupposti per rafforzare questa riflessione in Europa e per garantirle uno status costituzionale (non solo dunque in Italia) stanno infatti nel riconoscimento già in essere nel preambolo del Trattato, laddove si sottolinea l’esigenza dell’affermazione della legittimità delle diverse identità e culture dei popoli, si fa riferimento all’articolazione regionale e territoriale degli stati membri, si evidenzia in positivo la specificità insulare.

Le tre direttrici individuate per affrontare oggi la questione dell’insularità (inserimento nella Costituzione italiana, confronto europeo per attuare quanto riconosciuto nel Trattato della UE, nuova responsabilità istituzionale in Sardegna) non possono prescindere da un’attenta valutazione sul presente e futuro della politica regionale in Europa e delle aree svantaggiate, dei casi speciali, della cooperazione transfrontaliera, e della futura dotazione per la coesione economica e sociale.

L’iniziativa deve dunque coinvolgere la Regione Sardegna, il Governo italiano, la Rappresentanza delle Isole europee, la Commissione e i parlamentari europei, le parti sociali della Sardegna e le stesse centrali nazionali. In questa direzione diventa indispensabile, alla ripresa postferiale, programmare alcune iniziative unitarie in Sardegna, a Roma e a Bruxelles per dare forza alle richieste dell’Isola. In questa sede è utile dunque ribadire alcuni obiettivi utili ad azioni integrate a favore delle regioni insulari dell’Unione europea. Si tratta peraltro di proposte che il Comitato Economico e Sociale della UE ebbe già modo di esprimere come parere alla Commissione molti anni fa, e però ancora attuali e validi. In particolare:

a) elaborare un libro verde, consultando attori socio-economici, che delinei i contorni di un vero e proprio Piano di sviluppo dello spazio insulare comunitario, individuando già a livello delle diverse politiche comunitarie (trasporti e telecomunicazioni, energia e ambiente, ricerca e innovazione, informazione e formazione, istruzione e cultura, società dell’informazione e new economy,, sanità, politiche settoriali dell’agricoltura, pesca, turismo, etc.) meccanismi di intervento congiunto dei vari programmi. Tali meccanismi potrebbero essere attivati tramite la creazione di uno sportello unico per le isole dell’UE;

b) consolidare successivamente tale nuovo approccio all’insularità in un libro bianco contenente un piano d’azione che preveda un calendario definito di interventi e meccanismi

c) di monitoraggio dei risultati, con il pieno concorso degli attori economici e sociali insulari e a livello europeo;

d) elaborare ed attuare un’azione pilota di analisi comparativa e valutazione dei problemi e delle esigenze derivanti dalla condizione di insularità nell’Unione, ai fini di una strategia comunitaria di integrazione delle diverse politiche europee interessate, che, nel pieno rispetto delle diversità e peculiarità di tipologia e problematica delle isole, dia una connotazione univoca all’intervento comunitario basato sul pieno riconoscimento del principio della insularità quale criterio prioritario di attivazione dell’azione comunitaria per la competitività e lo sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione;

d) razionalizzare, potenziare e trasformare in azioni permanenti delle reti di informazione, formazione e valorizzazione delle PMI innovative, assicurando adeguata considerazione, in base al criterio dell’insularità, a progetti ed iniziative con componente insulare nei programmi e strumenti finanziari comunitari.

17. Dalla formazione una maggiore occupabilità e dignità del lavoro

Altro aspetto fondamentale di una strategia per lo sviluppo e il lavoro in Sardegna è la formazione professionale.

La gran parte delle misure di politica attiva del lavoro contengono l’intervento formativo finalizzato all’acquisizione di qualifiche o al consolidamento e miglioramento delle competenze. Di più, l’apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita è ormai un vincolo positivo e necessario per rispondere al meglio alla domanda di complessità e difficoltà dell’attuale fase della vita economica, sociale e istituzionale.

Le competenze lavorative hanno cicli di vita più brevi, e gli stessi apprendimenti scolastici non sono più sufficienti per via della obsolescenza conseguente alla velocità dei cambiamenti del lavoro, delle tecnologie e alla costante evoluzione delle conoscenze scientifiche che interagiscono con l’economia e trasformano anche il mondo delle cose e degli uomini.

Formazione di base, acquisizione di qualifiche, rafforzamento delle competenze, alta formazione, sono dunque condizione fondamentale per dare senso al proprio percorso lavorativo, professionale e di vita.

In questa direzione, le agenzie formative hanno nella propria mission una visione educativa e formativa improntata a una dimensione collettiva di senso, di solidarietà e di benessere sociale.

C’è un pregiudizio ideologico o di parte che pensa alla formazione professionale come ancella o ruota di scorta della scuola e della università. Bisogna invece guardare alla società della conoscenza come filiera dove interagiscono scuola, formazione, università e ricerca; aspetti che nella loro autonomia e dignità rispondono in modo diverso, a seconda delle libere scelte, alle domande di lavoro, di formazione, conoscenza e di senso della persona.

In Sardegna è documentato un deficit di competenze e una forte e diffusa richiesta di formazione professionale da parte dei giovani, dei lavoratori, dei disoccupati e delle loro famiglie. Le stesse imprese evidenziano uno squilibrio tra le richieste da loro effettuate e le professionalità e qualifiche disponibili nel mercato del lavoro.

È utile riportare alcuni dati per evidenziare la disponibilità delle risorse finanziarie della Regione per la formazione professionale e le politiche attive del lavoro, la potenziale utenza tra i giovani e i lavoratori, e il numero dei lavoratori che si pagano la formazione piuttosto che aspettare le decisioni e i tempi lunghi della Regione.

La formazione professionale viene finanziata, per la gran parte, attraverso l’Asse 3 del PO del Fondo Sociale Europeo 2021-2027. Altre risorse importanti vengono dai finanziamenti dello Stato per l’Istruzione e Formazione Professionale (le FP) e per Garanzia Giovani.

Le persone che partecipano a corsi formativi in autofinanziamento sono numerose; si tratta di giovani e lavoratori che, nonostante la grande disponibilità di risorse finanziarie della RAS, si pagano la propria formazione per acquisire una qualifica e una competenza.

Mai come in questa fase storica della società post-industriale risulta vera e appropriata la frase che “noi siamo quello che conosciamo”. I diritti di cittadinanza, peraltro in una società sempre più competitiva e utilitaristica, si acquisiscono certamente con istituzioni caratterizzate dall’equità e dalla giustizia sociale, ma anche dalle maggiori opportunità che derivano dalla filiera della conoscenza.

La Regione Sardegna ha una grande responsabilità nella programmazione e attuazione delle politiche attive del lavoro e formative. Ma registra difficoltà enormi soprattutto in sede operativa, nella capacità di rendere immediatamente cantierabili i programmi e i progetti e nella spesa delle risorse finanziarie finalizzate allo sviluppo, al lavoro e alla formazione.

In particolare è urgente intervenire sulle seguenti criticità:

1) Ipertrofia di competenze della Regione e delle sue agenzie sulle politiche attive del lavoro, sulla formazione professionale e sui servizi per l’impiego e cancellazione del principio di sussidiarietà.

2) Vuoto attuativo sul riequilibrio pubblico-privato (convenzionato) come pure previsto dal Decreto Legislativo 150 del 14.09.2015, sulle funzioni in materia di servizi per l’impiego e politiche attive del lavoro.

3) Assenza della rete istituzionale di governance delle politiche attive del lavoro, dei servizi per l’impiego e della stessa formazione professionale.

4) Scarso e inefficace coinvolgimento del partenariato economico e sociale nella fase attuativa del POR e nelle modalità gestionale delle diverse misure d’intervento del FSE.

5) Ipertrofia procedurale e burocratica in fase di impegni, pagamenti e spesa.

Gli argomenti appena trattati portano a una riflessione, pure molto breve, sul problema delle periferie, non solo sociali ma anche spaziali (territoriali), e sulle nuove e storiche rappresentanze del sindacato. Questione importante per contrattare le tutele necessarie, ma anche lo sviluppo di quelle aree e il diritto al lavoro.

18. Brevi appunti su periferie e rappresentanza dei soggetti sociali

La storia del sindacalismo confederale, e della CISL in particolare, è storia di periferie sociali e territoriali. La nomea delle aristocrazie operaie rinvia a lunghe vicende di lotte per la conquista dei diritti del lavoro e di cittadinanza piuttosto che a reali rendite di posizione nel confronto con altri aggregati sociali. Il sindacato nasce infatti dentro le periferie, sia nella dimensione spaziale del termine che in quella sociale, e si è consolidato e affermato in una visione solidaristica di grande apertura alla rappresentanza di interessi polverizzati e deboli e di ambiti territoriali caratterizzati da arretratezza economica e sociale e da preoccupante povertà.

Forme e modelli di periferie, e per converso di centri, attraversano la storia, e necessitano dunque di una lettura e interpretazione dinamica, specifica e non banale, perché ha implicazioni storiche, culturali, economiche, sociali e demografiche, anche per la presenza di numerosi centri e periferie nello stesso ambito istituzionale o territoriale.

La dimensione della periferia è soggetta nel tempo a profondi cambiamenti, sul versante non solo spaziale ma anche sociale, per via della evoluzione dell’economia, dei rapporti sociali e di potere, degli assetti urbanistici, dell’acquisizione dei diritti di cittadinanza e delle conquiste dello stato sociale, del ruolo della rappresentanza degli interessi, e da qualche tempo per gli influssi e flussi della globalizzazione e integrazione economica e finanziaria e per i rapporti di dipendenza tra Paesi del terzo e quarto mondo e potenze economiche e militari, e per il fenomeno ormai globale, e non governato, delle migrazioni di massa per fuggire dalla povertà, dalle guerre e per la speranza insita in ogni essere umana di ambire a migliori condizioni di vita e di lavoro.

È innegabile il ruolo del sindacato confederale nella rappresentanza storica dei territori poveri e dei soggetti sociali più deboli, a iniziare dalle vicende della ricostruzione postbellica e del consolidamento della democrazia e dello stato repubblicano nel nostro Paese. Si pensi alle lotte per lo sviluppo e il lavoro nel Meridione, e alla rappresentanza degli interessi degli operai nelle grandi e piccole fabbriche del nord e alla tutela delle migliaia e migliaia di disoccupati, contadini e pastori che lasciavano il sud e le isole per cercare nel nord una diversa e migliore speranza di lavoro e di vita.

Queste erano le periferie spaziali e sociali che per decenni il sindacato confederale ha attraversato e rappresentato. Oggi la globalizzazione, la modernità, quel “battito d’ali” che può determinare fenomeni planetari, le migrazioni dei popoli, ci stanno portando a una ulteriore evoluzione del rapporto centro-periferie e a nuovi soggetti sociali emarginati e periferici e a territori che necessitano di una rinnovata rappresentanza, di nuovi modelli contrattuali, di diritti di cittadinanza e di meccanismi normativi e istituzionali che rafforzino la solidarietà tra territori e tra questi e lo Stato. In questo contesto un tema dominante è l’invincibile attrazione della città, con le contraddizioni insolute relative al degrado ambientale e alle periferie sociali e spaziali che le caratterizzano. Viene del tutto meno in vasti strati sociali e periferici, ed è una realtà ormai presente in molte delle città europee, il rapporto elementare delle persone escluse con i quattro ambiti della propria realizzazione (sé stesso, la natura, gli altri e il sapere). Si tratta certamente di intervenire sulle periferie degradate, su un nuovo rapporto con il centro, ma anche e soprattutto di garantire i più importanti diritti di cittadinanza per i disoccupati, per gli emarginati, per i precari, per i senzatetto.

Altrettanto rilevante è il problema di quei territori dove l’agricoltura, la pastorizia e la ruralità non sono garanzia di competitività economica, anche per via delle dinamiche produttive e delle scelte europee, e dove la perifericità assume le caratteristiche della cancellazione tendenziale di aggregati umani e culturali, dell’estinzione di quelle comunità, della mera sopravvivenza di figure economiche, professionali e sociali importanti per il presidio del territorio e per la stessa biodiversità.

Oggi l’attenzione alle periferie passa di qui e coniuga la tradizionale rappresentanza del mondo del lavoro, di quello che c’è e di quello che manca, con la tutela del lavoratore precario, delle nuove figure sociali e professionali prodotte dalla modernità e dalla innovazione tecnologica, delle non autosufficienze, dei diversamente abili, e di quanti, gli esclusi, si muovono senza gli elementari diritti soprattutto nelle periferie delle città, e di quanti nei comuni minori e rurali rischiano di essere cancellati come comunità, per l’assenza dei servizi primari e fondamentali, e in primo luogo delle opportunità lavorative.

I servizi del sindacato presenti in queste realtà, specifiche e adeguate professionalità, il confronto e la contrattazione con le istituzioni locali, regionali e nazionali per la presa in carico di queste persone e dei problemi del territorio, la proposta di un welfare integrativo, il rafforzamento dell’associazionismo locale e delle alleanze sociali, la razionalizzazione, con leggi quadro, delle norme sul sociale in essere a livello regionale e nazionale, sono solo alcune delle risposte e proposte che il sindacato ha storicamente nella sua agenda.