di Mario Medde

Le istituzioni locali e regionali della Sardegna sono sempre state al centro dell’attenzione e delle proposte del sindacato sardo e della CISL sarda in particolare. La questione dell’autonomia della Sardegna, e della stessa Rinascita, ha accompagnato le lunghe vicende storiche, culturali, politiche e sociali dell’Isola. Vi era la consapevolezza, pure nella varietà delle posizioni e analisi, della grande importanza della identità e delle specificità dell’Isola per coltivare e perseguire gli obiettivi di sviluppo e di progresso individuale e collettivo della Sardegna. Certo, sulla datazione di questa consapevolezza da parte dei sardi sia gli storici che i grandi leaders della politica non hanno sempre concordato.

È conosciuta, e riportata in diverse pubblicazioni ed epistolari, la diatriba tra Emilio Lussu e Renzo Laconi, soprattutto a partire da un intervento di Lussu, nella storica rivista de «Il Ponte» del 1951 interamente dedicata alla Sardegna, e contestato da Laconi, che all’epoca rimase come lettera privata, ma poi conosciuta e pubblicata.

Un confronto sul tema autonomistico ampiamente richiamato e sviscerato in alcune importanti pubblicazioni, la prima del 1988, curata da Umberto Cardia, dedicata agli scritti e interventi di Renzo Laconi, dal titolo La Sardegna di ieri e di oggi, scritti e discorsi (1945-1967), Edes Editore; la seconda, del 2008, curata da Giuseppe Podda e titolata La nazione mancata, Sardegna tra autonomia e federalismo nel carteggio Lussu-Laconi, Fabula Srl. Due monografie importanti sono quella di Pier Sandro Scano e Giuseppe Podda dal titolo Renzo Laconi, un’idea di Sardegna, del 1998, Aipsa edizioni, e quella di Adriano Vargiu, del 2006, titolata I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del 1944, Iskra editore.

Da evidenziare che, al di là della datazione circa la consapevolezza della identità autonomistica, che pure andava oltre l’aspetto storiografico, dopo l’approvazione dello Statuto speciale, la gestione della idea autonomistica finì con il coincidere con la Rinascita, cioè con l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, sul quale Emilio Lussu aveva detto che quello era un testo mutilato, cioè spoglio delle conquiste che lo statuto siciliano conteneva, e del quale lui inutilmente aveva proposto l’estensione , e che quello sardo stava al federalismo “come nella famiglia dei felini il gatto sta al leone”.

Nel 1950 il PCI e alcune formazioni della sinistra organizzarono il Congresso del popolo sardo al teatro Massimo di Cagliari per sostenere l’idea autonomistica e la Rinascita. Pochi giorni prima nasceva a Roma la CISL, che nel corso del decennio successivo si strutturò e si organizzò in Sardegna attraverso le Unioni Sindacali Provinciali e le federazioni di categoria. L’obiettivo della Rinascita e l’idea autonomistica divennero in quegli anni patrimonio e pratica della Organizzazione attraverso specifiche iniziative e la partecipazione attiva ai convegni organizzati dalla Regione per una consultazione sul Piano dei tecnici relativo al Rapporto conclusivo per il Piano di Rinascita, redatto dalla Commissione a distanza di sette anni dalla sua costituzione. Gli interventi della CISL, ai tre convegni della Regione, furono affidati ai segretari delle Unioni Provinciali, Giannetto Lay per Cagliari, Enzo Giacomelli per Sassari, Gianfranco Chiappella per Nuoro. Nel 1961, un anno dopo un importante e partecipato convegno della CISL sulla Rinascita, con una relazione di Ignazio De Magistris, le tre Unioni Sindacali Provinciali presentarono un documento sul disegno di legge governativo sul Piano di Rinascita della Sardegna.

L’iter governativo e parlamentare del disegno di legge e il tentativo degli organi governativi romani di mantenere il controllo di una guida centralistica portò le forze politiche e sociali dell’Isola a rivendicare l’Autonomia, la guida e la gestione del Piano. “La CISL era totalmente schierata su questa posizione e per affidare il successo del Piano alla formazione di una guida politica della Regione autenticamente riformista”, così viene anche riportato da Paolo Fadda nel libro “Storia di un sindacato popolare. Cinquant’anni della CISL sarda 1950-2000”, Fisgest divisione editoriale.

Questi richiami per confermare e ribadire quanto il sindacato sardo sia stato dentro le vicende dell’Autonomia e della Rinascita, indipendentemente dall’esito che quelle stagioni ebbero rispetto alle aspettative, considerando però anche la visione e l’apporto critico che le forze sociali esercitarono in quel contesto relativamente alle scelte che la politica e le istituzioni sarde misero in campo sia nel primo Piano di Rinascita del 1963 che nel rifinanziamento del 1974.

Furono proprio su quelle vicende, e sulle conseguenze maturate sino al 1980, che l’oggetto della discussione e dei contenuti si modificarono spostando l’attenzione ai poteri dell’Autonomia, al rapporto con lo Stato e anche alla necessità di revisione e riforma del sistema istituzionale dell’Isola. Una riforma che riguardava in primo luogo la Regione, alla luce del fallimento della politica di decentramento concretizzatasi attraverso le zone omogenee, i comprensori e le comunità montane. Un deficit di strategia che portò negli anni successivi persino ad affossare le province, ma senza neppure garantire un nuovo soggetto istituzionale intermedio tra i Comuni e l’Ente Regione.

La massima istituzione regionale, invece, continuava nel tempo a rafforzarsi sempre di più sul modello dello Stato e con un ulteriore accentramento di poteri, risorse e funzioni. Il problema del federalismo interno all’insegna dell’affermazione del principio di sussidiarietà e di differenziazione era diventato un tema di discussione, ma mai progetto di riforma istituzionale.

Queste sommarie valutazioni per introdurre una vecchia, nel senso di antica, riflessione circa il superamento dell’idea di autonomia e Rinascita così come le abbiamo interpretate e vissute per diversi decenni, e per difendere la necessità di declinare in modi e forme diverse la Specialità come dimensione culturale, storica, etnica e istituzionale, partendo anche da quella geo-territoriale come l’insularità.

Come la Cisl sosteneva dal 1999, insieme ad altri autorevoli esponenti politici presenti nel Movimento per l’Assemblea costituente del popolo sardo, tutto ciò presupponeva e oggi presuppone una revisione e rinegoziazione del rapporto con lo Stato, dei poteri dello Statuto, dell’autonomia finanziaria e di spesa, del ruolo della dimensione insulare nell’Unione europea.

Contestualmente era ed è ancora necessario avviare una strategia e una riforma istituzionale per rivedere poteri, compiti e funzione dell’Ente Regione e il trasferimento di poteri e risorse alle nuove province e ai Comuni. Ma dai primi anni del 2000 – quando ebbi modo con gli altri rappresentanti del Movimento per la Costituente sarda di esporre al Presidente Azeglio Ciampi i contenuti delle iniziative per la rivisitazione dello Statuto speciale della Sardegna – si sono succedute iniziative anche legislative, ma senza successo alcuno, soprattutto per l’assenza di una vera volontà unitaria della politica e delle istituzioni dell’Isola.

In una raccolta di saggi, titolata La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi e processi culturali, a cura di Luciano Marrocu, Francesco Bachis e Valeria Deplano, 2015 – Donzelli Editore, Maria Rosa Cardia ricostruisce il lungo percorso delle vicende sulla mancata riforma dello Statuto speciale dell’Isola, senz’altro molto utile, ma in un passaggio non condivisibile, quando scrive che gli ostacoli maggiori sono da individuare nel fatto che il confronto sulle proposte è avvenuto “ (…) più sul metodo che sul merito, su sterili diatribe procedurali, frutto della frantumazione del quadro politico e della sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, attardandosi sulla scelta di affidare la definizione del nuovo Statuto a una Consulta o a un’Assemblea costituente o ai cosiddetti “Stati generali” o a una Commissione consiliare, con esiti inconcludenti”.

A parte la considerazione che i modelli di democrazia parlamentare e consiliare implicano anche la centralità degli aspetti di natura procedurale, non è certo secondario riflettere su come lo Statuto speciale in quanto norma costituzionale e Legge Costituente della Sardegna debba essere supportato nel migliore dei modi dal consenso e dalla mobilitazione e forza dei sardi. D’altronde la legge fondamentale dell’Italia, la Costituzione, venne scritta e varata attraverso un’Assemblea costituente, certo in una fase storica che necessitava di rimettere insieme le forze politiche e, attraverso i partiti, una ampia rappresentanza del popolo.

Non diversa per certi aspetti la situazione della Sardegna. Infatti il fallimento dei due Piani di Rinascita in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, il venir meno delle storiche opzioni dell’Autonomia e della Rinascita, la non adeguata efficacia ed efficienza dell’Ente Regione, la necessità di supportare le rappresentanze politiche nel confronto con Roma e nello stesso rapporto con la pubblica opinione, il nuovo volto della questione sarda oltre la dimensione economicistica, portava, e ancora oggi dovrebbe portare, a valutare la rilevanza delle procedure e delle modalità, oltre ai contenuti e agli obiettivi strategici, per coinvolgere nel migliore modo possibile il popolo sardo.

Lasciare alla sola classe dirigente la guida, la rappresentanza di progettare e realizzare, oggi ancora più di ieri sembrerebbe un vero e proprio azzardo destinato ancora una volta al fallimento dell’impresa, non solo per le divisioni in campo tra gli schieramenti politici e per le percentuali dei votanti in sede di consultazioni elettorali, ma anche per l’evidente logorio delle istituzioni autonomistiche, le prime a dover essere rivisitate. D’altronde la stessa vicenda della Legge statutaria regionale prova quanto appena scritto, cioè le difficoltà delle leadership regionali e del Consiglio regionale nell’elaborare una strategia utile a ridisegnare il sistema delle autonomie dell’Isola.

L’unica norma che il Consiglio riuscì a mettere in campo e approvare fu nel 2013 la Legge regionale statutaria elettorale e sulla forma di governo ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale della Sardegna. Qual è oggi lo stato dell’opera nei documenti della Regione Sardegna? Basta scorrere anche velocemente quanto riportato nel Programma Regionale di Sviluppo 2024-2029. Nel capitolo “Nuovo sistema Sardegna” vengono elencati i principi fondanti, e tra questi la piena realizzazione dell’autonomia speciale della Sardegna e la ridefinizione dei rapporti con lo Stato su temi quali, ad esempio, la fiscalità e le servitù. Più avanti si scrive che “È fondamentale ridefinire l’Autonomia speciale della Sardegna attraverso la rivisitazione dello Statuto regionale, valorizzando al massimo le peculiarità in esso previste, adattandolo alle esigenze attuali e preparandolo per eventuali modifiche future. È necessario introdurre una legge statutaria (ai sensi dell’art.15 dello Statuto) che stabilisca i principi per la riorganizzazione e il riordino, accompagnata da leggi ordinarie che ridefiniscano il funzionamento della Giunta e dell’intero apparato amministrativo regionale. Tali disposizioni dovranno anche regolare i rapporti con le autonomie locali e definire modalità e strumenti per garantire una maggiore presenza della Sardegna in Europa, nel Mediterraneo e nel contesto globale”.

Nel capitolo sulle grandi riforme si sostiene inoltre che “s’intende potenziare l’Autonomia della Regione Sardegna attraverso il riconoscimento di nuove competenze, una nuova disciplina della forma di governo, degli istituti di democrazia partecipativa e una rinnovata politica fiscale, e rivendicando una pari dignità istituzionale nei rapporti bilaterali con lo Stato e perseguendo una maggiore incisività della rappresentanza dell’Isola nelle sedi decisionali a livello nazionale ed europeo”. Si sostiene inoltre che la riforma dello Statuto dovrà essere un processo inclusivo per ottenere il più ampio consenso del sistema economico, politico, sociale, culturale e istituzionale.

Si è di fronte ad affermazioni generali e generiche, neppure sostanziate da una lettura delle esperienze pluridecennali maturate dalla stessa Regione, né da una riflessione e conseguente definizione dell’attuale questione sarda, dell’incidenza che l’Europa ha nelle politiche e nelle misure utili ad affrontarla, né da una riflessione sullo stato del confronto relativamente al riconoscimento dello status di insularità in Costituzione e non solo, né di come si intende procedere con la rinegoziazione con lo Stato relativamente a quali e nuovi poteri e se attraverso la Commissione paritetica, una Consulta oppure un’Assemblea costituente.

Appare invece evidente, anche come riportato dal saggio della Cardia, l’obiettivo dell’attuazione integrale dello Statuto, con una scelta interna all’Ente Regione e insieme a una Legge statutaria anch’essa incentrata su una sorta di riorganizzazione amministrativa. Obiettivi che evitano gli scogli del rapporto negoziale con lo Stato e che fin ora però non hanno sortito cambiamento alcuno. Una sorta di scelta gattopardesca perché tutto resti com’è, cioè con un Ente Regione che mantenga tutti i poteri e le risorse, senza neppure avere l’efficienza e l’efficacia per attuare quanto programmato e di spendere tempestivamente le risorse a disposizione, figuriamoci per affrontare i nodi storici che hanno motivato la consapevolezza della specialità autonomistica. Si rischia di fallire, in perfetta continuità con gli ultimi cinquanta anni, pensando, senza neppure grandi tentativi, di attuare tutti i dispositivi dell’attuale Statuto. Eppure una ragione ci dovrà pure essere se non si è riusciti.

Si dovrebbe riflettere molto di più sulla frase di Emilio Lussu e sui limiti dell’attuale Statuto, e nel contempo sulla sua capacità di incidere sui problemi dell’Isola, in primo luogo rispetto ai numerosi vincoli in fase attuativa. Non si era sbagliato Lussu nel paragonare lo Statuto più a un gatto che ad un leone; e oggi ancora di più alla luce del peso e dei pesanti condizionamenti che vengono dallo Stato e dalla Europa sui problemi più importanti dell’Isola. Si pensi, solo per citarne alcuni, alla mobilità delle persone e delle merci, alla continuità territoriale, alla politica di sostegno alle imprese, alla politica fiscale e alle zone franche integrali, alle politiche della scuola e della istruzione, allo stesso perdurare della idea e pratica della specialità ormai quasi del tutto annegata nella ordinarietà rispetto alle altre regioni, sia sul versante delle competenze che della ripartizione delle risorse.

Il problema della Sardegna e delle forze politiche sarde lo evidenziava Maria Rosa Cardia, in una sorta di scritta tombale, nel saggio ricordato:” (…) Persistono molte divisioni sul modo di concepire il fondamento stesso dell’Autonomia”. Il problema vero non riguarda però la varietà e pluralità delle posizioni, ma il vuoto di idee e narrazioni utili a delineare il volto e il ruolo della Sardegna in un contesto dove è indispensabile avere gruppi dirigenti all’altezza, ma anche e soprattutto una strategia su come stare nel Mediterraneo, nel Paese, in Europa e nel mondo globalizzato. Quali risorse umane mettere in campo, quale innovazione tecnologica diffusa, quale scuola e formazione, quali poteri e risorse necessari per competere, come contrastare il calo demografico più pericoloso che altrove, quali innovazioni di processo e di prodotto sostenere, come rendere efficienti ed efficaci le istituzioni dell’autonomia, come garantire i diritti di cittadinanza fondamentali, come sostenere e incentivare le intelligenze nei diversi campi, come promuovere la partecipazione dei cittadini oltre il momento elettorale per ridare fiducia alla politica e credibilità alle istituzioni?

Non aiuta certo l’assenza di riflessioni, dibattiti, anche confronti duri e talvolta spigolosi come capitava negli anni cinquanta e sessanta, un ruolo degli intellettuali isolani non adeguato alle necessità culturali e politiche, e soprattutto un vuoto strategico delle forze politiche quanto a interventi, riflessioni e proposte, non agevolate purtroppo dalla inesistenza di luoghi, riviste di partito, di spazi di ricerca storica e culturale. Ma questo è un segno dei tempi, quando la predominanza dei social è diventata invasiva e pervasiva, e, salvo eccezioni, penalizzante per una riflessione strutturata e per un confronto rispettoso delle persone e delle idee.