di Mario Medde
La scuola sarda è da tempo immemorabile alle prese con problemi di dispersione scolastica e di abbandono, di adeguatezza delle strutture e degli edifici, di carenza di organici e insegnanti di sostegno. Da evidenziare anche per l’Isola una percentuale alta di giovani che non studiano e non lavorano e una media di laureati inferiore di diversi punti a quella nazionale.
Le iniziative più significative della Regione per il diritto allo studio, per contrastare la dispersione e per migliorare la qualità del sistema scolastico riguardano la legge regionale n. 26 del 1971, e successive modifiche, sul diritto allo studio e sulla scuola a tempo pieno, la legge regionale 31 del 1984 sul diritto allo studio e sull’esercizio delle competenze delegate, la legge regionale n.37 del 1987, e successive modifiche, per il diritto allo studio nelle università della Sardegna, il Programma “ Tutti a Iscol@ “, del gennaio 2016, finalizzato a rafforzare il sistema scolastico e migliorare il successo formativo anche attraverso la lotta alla dispersione scolastica.
Una evoluzione normativa che non ha però contribuito a migliorare significativamente la qualità dell’offerta scolastica e formativa e la soluzione degli annosi problemi della scuola in Sardegna. A parte la considerazione che il trattamento economico degli insegnanti, non adeguato alla rilevanza della funzione, dovrebbe essere affrontato e risolto ovviamente in sede nazionale con la volontà del governo e con la trattativa sindacale.
La domanda che bisogna porsi è dunque quale sistema scolastico per la Sardegna, rispetto alle caratteristiche territoriali e demografiche e degli insediamenti abitativi, alla inadeguatezza della rete dei trasporti, alle risorse necessarie per nuove scuole e laboratori, e agli organici necessari per le classi e gli istituti anche prescindere dai vincoli stabiliti dal Ministero.
La verità è che la Regione, cercando inutilmente di tamponare le falle, ha inseguito le scelte ministeriali, il più delle volte improntate a una razionalizzazione selvaggia all’insegna di una pura logica ragionieristica, abbassando così la qualità dell’offerta formativa e mettendo a rischio l’esercizio dello stesso diritto allo studio.
La legislazione messa in campo dalla Regione è risultata una sorta di palliativo che non ha prodotto neppure l’attivazione in termini forti e adeguati dell’articolo 5 dello statuto speciale (che prevede di adattare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione ed attuazione su istruzione di ogni ordine e grado, ordinamento degli studi, lavoro, previdenza ed assistenza sociale, antichità e belle arti, nelle altre materie previste dallo Stato). Un contenuto che comunque andrebbe rinegoziato per acquisire alcune competenze e poteri, almeno in tema di organizzazione della rete scolastica, e da non sottoporre comunque al consenso dello Stato.
Da più di 40 anni si ripropone invece con cadenza annuale il problema della soppressione di classi, di istituti e di riduzione delle autonomie scolastiche. Un confronto tra Regione e Ministero che riduce ogni anno la presenza della scuola nei territori, già impoveriti da una sanità che ha cancellato presidi ospedalieri e medici di famiglia in tante comunità dell’Isola. Un processo di impoverimento dei territori della Sardegna quanto a fondamentali diritti di cittadinanza, in aggiunta alla carenza di opportunità lavorative soprattutto per i giovani.
Non è una vicenda recente, è invece una lunga e annosa storia che andrebbe ripresa in mano per contrastare i presupposti pseudo culturali e politici di stampo ragionieristico che sottendono le scelte dello Stato e la scarsa capacità dell’Ente Regione di farsi carico di una strategia operativa in grado di affrontare le difficoltà della scuola sarda.
Si tratterebbe dunque di varare un programma che vada oltre le toppe da riparare e per affrontare invece il merito dell’articolo 5 dello Statuto speciale, e nel contempo per rinegoziarne anche i contenuti. Tutto ciò non esclude ovviamente l’urgenza di un diffuso coinvolgimento degli operatori della scuola e delle rappresentanze sociali ed economiche per delineare un programma pluriennale per un sistema scolastico a misura dei bisogni della Sardegna.
Da circa 40 anni le comunità dell’Isola sono destinatarie di provvedimenti che cancellano i presidi fondamentali della scuola. Un lungo lasso temporale che obbliga la politica e la Regione a una svolta in termini di capacità progettuale e di decisioni negoziali con lo Stato.
30 ottobre 2025
Qui di seguito ripubblico una nota risalente al 1988 e riguardante le iniziative della CISL di Oristano sul problema della chiusura delle scuole nel territorio.
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Se “tagliano la scuola”
È bene ritornare sui problemi sollevati dai provvedimenti di soppressione delle classi di scuola media in molti paesi dell’interno della provincia. Non solo perché la cronaca li ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica, ma in primo luogo perché si tratta della punta di un “iceberg” che investirà in forme e modi ancora più drammatici, seppure con i tempi di un processo articolato e lento, le comunità oggi interessate alla permanenza di questo livello della scuola dell’obbligo. È in atto infatti, da tempo, un processo di vera e propria estinzione di questi paesi, un tentativo di cancellazione della loro stessa memoria storica, ampiamente documentato con la crudezza delle cifre dai dati statistici sull’evoluzione della popolazione residente dal 1951 a oggi. Non solo, i numeri vengono confortati dalla quasi totale assenza di centri e/o strutture di aggregazione sociale e culturale.
Ma lo spopolamento non è certamente tipico della sola nostra provincia, è un fatto nazionale e mondiale. Le piccole e grandi città diventano realtà urbanistiche sempre più consistenti e invivibili, la periferia e le zone interne del territorio diventano sempre più marginali e spopolate. Nel piccolo della provincia di Oristano l’andamento demografico dal 1951 al 1985 registra una situazione di questo tipo: Oristano città ha una variazione in percentuale 1985/1951 di + 86,6; la variazione in percentuale dell’intera provincia (compresa Oristano città) nello stesso periodo è di + 6,7.
Quel che però caratterizza questa realtà, la Sardegna in generale, rispetto a territori e centri che presentano lo stesso fenomeno di calo demografico, è la costante stagnazione economica e l’irreversibile, almeno per questa fase, declino culturale d’identità sociale e storica. Siamo cioè di fronte a una crisi d’arretratezza e insieme di dipendenza che produce all’interno delle stesse aree deboli concentrazioni forti, meno forti e povere. Infatti i comuni più piccoli dell’interno, della Marmilla o dell’Alto Oristanese, hanno ormai raggiunto il livello di guardia, non solo in termini demografici ma pure di esistenza, cioè di occasioni e di strutture che come “ultima ratio” incentivano la permanenza dei giovani, almeno di quei pochi rimasti. In questa direzione, si spiega l’alta percentuale di popolazione anziana sia in termini assoluti che rispetto alla popolazione attiva, anche in confronto ai dati regionali e meridionali. In molti casi è difficile garantire la stessa autonomia municipale, spesso per cause soggettive, ma sempre di più per la dimensione ridotta del comune che comunque deve erogare percentualmente gli stessi servizi dei centri maggiori e gestire nuove deleghe e competenze privi delle necessarie risorse finanziarie e delle relative professionalità. Qualche timido tentativo di associarsi in consorzio si scontra spesso con ritardi culturali, altre volte con difficoltà di natura territoriale e geografica. Una visione economistica dello sviluppo economico e sociale, e una sorta di miopia che induce a travisare i modi e i tempi dei processi di sviluppo, porta taluno a sottovalutare il ruolo della formazione, della cultura, della scuola, rimandando il riscatto di queste zone a interventi finanziari, a piani integrati, a una revisione del modello di sviluppo.
L’imprevisto nasce quando si tratta di trasferire il modello teorico e le affermazioni di principio dalle parole ai fatti e alla iniziativa politica. Allora infatti si registrano inadempienze e ritardi secolari e alle popolazioni non resta altro che lo scoramento. Per noi la difesa della scuola dell’obbligo in questi centri è stata l’occasione per una battaglia più ampia e articolata sulla scuola e la cultura in provincia e in Sardegna. A suo tempo, ora è un anno, proponemmo di praticare le pur minime competenze dell’art. 5 dello Statuto sardo per rilanciare la scuola in Sardegna, per rivitalizzare lo stesso statuto, per difendere l’identità e la memoria storica della provincia e del l’isola. Da qualcosa bisogna pur partire, ed è innegabile che questo qualcosa debba essere anzitutto, e prima della didattica, il diritto alla vita delle zone interne.
1988
