di Mario Medde
1. Il virus come merce
Virus significa veleno, in latino. Non c’è dubbio alcuno che come tale si stia comportando il coronavirus. Terribilmente contagioso e letale, avvelena la vita delle persone e pure degli Stati. Sino a quando, si spera il più in fretta possibile, non ci sarà un vaccino in grado di debellarlo del tutto. Eppure molto lascia pensare che la forza inarrestabile dell’economia e della società capitalistica riesca comunque a trasformare anche il virus in una sorta di “merce” che produce altre merci, alimentando così il processo circolare che caratterizza la produzione capitalistica.
Il virus sta portando infatti a una revisione di alcuni tra gli asset più importanti nei diversi Paesi che non avevano adeguatamente valutato la rilevanza di avere in casa produzioni primarie nel settore sanitario e dei kit di sicurezza, e pure nel campo della ricerca biomedica.
Certo il coronavirus, oltre alla sua letalità, porta recessione economica e povertà, ma, alla lunga, la razionalità, la capacità nel contrastarlo e, se si vuole, pure il motore del profitto dell’organizzazione capitalistica avrà la meglio. Già da oggi infatti lo tratta non solo come veleno da depotenziare, ma pure come opportunità necessitata di riassettare alcuni settori economici e produttivi. Taluni sostengono che la lezione impartita dal coronavirus porterà a nuove virtù solidaristiche sul piano relazionale e sociale, e a un volto diverso della sanità pubblica, il che sarebbe auspicabile, e pure a un diverso assetto in Europa e nello stesso sistema produttivo delle imprese. Alla luce dell’esperienza passata, e del secolo scorso, non ci saranno magnifiche e progressive sorti di natura etica nel destino del capitalismo, a seguito della tempesta indotta dal virus. Dopo una fase in cui verranno digerite le difficoltà delle imprese e le ripercussioni della recessione economica anche sul sociale, è più probabile che, come nel secondo dopoguerra, si creino le condizioni per un consistente periodo espansivo dell’economia e un ulteriore rafforzamento della globalizzazione e della sua finanziarizzazione.
Economia e libertà rischiano però di camminare su binari paralleli e in direzione opposta. L’una rafforzandosi con adeguamenti e ristrutturazioni, l’altra modellandosi sull’egemonia delle oligarchie, con il prevalere della tecnica sulla politica, sulla ulteriore riduzione a mero simbolo del Parlamento (perché le decisioni vengono assunte altrove, o con modalità tipo voto di fiducia in eccesso, e Decreti), sulla priorità della costante emergenziale come giustificazione della limitazione delle libertà e il “momentaneo” accantonamento dello Stato di diritto. Più che sulle democrazie occidentali si rischia di virare verso il dispotismo cinese, assenza di libertà più organizzazione economica capitalistica. È per ora solo un rischio, perché, a onor del vero, in Italia dai primi del mese di febbraio, questa fase è stata caratterizzata da un’anarchia istituzionale dove Decreti del Presidente del Consiglio, annunci televisivi, ordinanze delle Regioni e dei sindaci si rincorrevano in una sorta di sfida a chi faceva più prescrizioni. Tutte supportate da virologi, epidemiologi, infettivologi, e da una marea di esperti delle diverse discipline scientifiche attinenti alla pandemia virale. Tutti esperti, e non tutti con una sola voce, salvo il diktat “restare a casa”.
2. La scienza e l’autonomia della politica
Mai come in questo caso si è visto un così grande numero di scienziati e di esperti comparire nelle tv e sui giornali. La scienza al potere, si direbbe, anche in considerazione della molteplicità di comitati scientifici che Governo e Regioni hanno come referenti e guida per le loro decisioni. Per decenni ci si è lamentati della subordinazione della scienza al potere, e oggi si assiste invece a un profluvio di decisioni guidate non da chi governa e amministra, ma dagli scienziati. È giusto, si dirà, perché, sul problema, i politici e gli amministratori non hanno le competenze per scegliere la strada migliore da intraprendere. Come dicevano i latini “sutor ne ultra crepidam”, e cioè “ciabattino non andare oltre le tue scarpe”!
Ma la debolezza di questo comportamento decisionale sta proprio nelle modalità scelte a partire da gennaio e nei mesi successivi, quando ancora era possibile frenare il contagio e il numero dei morti. La scienza aveva una voce incerta e non riusciva a leggere negli avvenimenti cinesi, e il Governo, mentre dichiarava lo stato di emergenza sino a luglio, non ne traeva le dovute conseguenze. Molti nelle stanze del potere pensavano si fosse di fronte a qualcosa che era poco più di una influenza; e gli scienziati, come la scienza che opera per prova ed errore, ebbero modo, e poco tempo, per correggersi. Non che oggi da parte degli scienziati ci siano molte certezze sul coronavirus, e sulle modalità per combatterlo, ovviamente a prescindere dalla regola del distanziamento sociale; una certezza che viene comunque da tempi remoti.
Anche le vicende connesse al coronavirus attestano che non c’è oggi la subordinazione della scienza alla politica. Viviamo in una lunga fase di dominio della tecnica sulla politica, e la neutralità della ricerca è spesso venuta meno non perché è diventata ancella della politica, ma del potere economico e finanziario, che attraverso la scienza ha potuto e può condizionare non solo il modo di vivere, e non in meglio, ma anche le stesse istituzioni.
Oggi è ancora più vero perché con la biomedicina e le biotecnologie si è in grado non solo di influire sulle relazioni mondiali con attività produttive decisive per la salute delle persone, ma anche di determinare i prodotti della generazione intervenendo sugli elementi costitutivi del DNA.
L’autonomia della ricerca e la neutralità della scienza sono condizioni fondamentali perché siano al servizio di un’etica positiva e della persona, e non certo del mercato. Ma questo non è un ostacolo a che la programmazione e le scelte della politica le indirizzino verso delle produzioni strategiche utili al Paese e ai cittadini.
La conoscenza deve dunque essere al servizio della Polis. Il governo degli ottimati, quando anche degli scienziati, appartiene a una concezione oligarchica e, nella migliore della ipotesi a un mondo immaginario, oppure di sottomissione al re di turno.
Nella lotta in atto tra la scienza e il coronavirus, la politica non deve essere una sorta di comparsa, di soggetto che decide solo sulle indicazioni dei tecnici; deve anche essa avere la sua autonomia, perché la sua funzione va ben oltre l’oggetto della ricerca scientifica, e riguarda il governo dei cittadini e della cosa pubblica, dove si miscelano bisogni, sentimenti, aspettative, urgenze, contrapposizioni, che superano la oggettività e i tempi della scienza. Tra uomo e natura non è vero che c’è armonia, spettano alla socialità, e a ciò che esprime in fatto di governo democratico, le decisioni ultime sugli equilibri da ricreare, tutelando prima di tutto l’umano.
Gli scienziati devono offrire le loro conoscenze, cosa ben diversa da raccomandazioni che diventano poi condizionamenti decisivi, non solo su aspetti importanti riguardanti il come e il quando nelle strategie per combattere il coronavirus, ma anche per le fasi della normalizzazione della vita individuale e collettiva. Si dirà che sul piano formale decidono il Governo, le Regioni e persino i sindaci, ma loro stessi dichiarano che le decisioni sono state assunte in base alle raccomandazioni degli esperti, che diventano di fatto vincolanti.
La scienza nei suoi diversi ambiti ha accompagnato in termini decisivi la storia umana e la sua emancipazione, ma non è la ricerca della verità. Sulla epistemologia Karl Popper nel saggio L’evoluzione e l’albero della conoscenza sostiene che «Dall’ameba ad Einstein lo sviluppo della conoscenza è sempre il medesimo: tentiamo di risolvere i nostri problemi e di ottenere, con un processo di eliminazione, qualcosa che appaia più adeguato ai nostri tentativi di soluzione». Prova ed errore su questioni empiriche da affrontare appunto con metodo scientifico. Ma la coscienza, la libertà, e le forme entro le quali costruire lo Stato di diritto e i suoi irrinunciabili principi , taluni anche indisponibili all’azione del Governo, appartengono alla persona, al popolo e alla politica. Anche nell’emergenza non si può dunque sfuggire ai fondamentali principi di libertà e democrazia; fatte salve le indispensabili precauzioni, e i principi di adeguatezza e proporzionalità nelle decisioni riguardanti eventuali, ma molto temporanee, limitazioni di alcuni diritti. Dopo circa due mesi e una settimana dalla proclamazione dello stato di emergenza, e un mese dalla chiusura delle attività produttive, e del confino delle persone nelle proprie abitazioni, quando al periodo transitorio non si danno certezze di ristretti limiti temporali, con la giustificazione che la durata è condizionata dai comportamenti del virus e dai dati sanitari, significa che il modello adottato non funziona e che, al di là della corretta norma sul distanziamento sociale, non si ha molto altro da dire di realmente efficace. E infatti la proroga delle prescrizioni oltre il 13 aprile diventa di fatto automatica, considerato che il numero dei morti è sempre enorme e che i focolai del nord non si spengono, e che nel resto del Paese il virus non ha ancora raggiunto l’ormai famoso picco, mentre l’economia cola a picco la ricchezza produttiva e intacca inesorabilmente il risparmio privato e impoverisce una quota enorme di cittadini italiani. È evidente che la scienza sul coronavirus non ha ancora le risposte necessarie da suggerire, quanto a vaccini e a strategie utili, a quelli che dovrebbero essere i decisori,cioè i governanti. Salvo, per ora, gli adempimenti che vengono da tempi molto lontani e che parlano più di limitazione delle libertà che di cure decisive. La scienza è fondamentale per l’uomo, ma, come già sottolineato, la ricerca della conoscenza ha appunto i suoi tempi e avanza per prova e spesso per errore prima di raggiungere, non la verità, ma il risultato che si voleva dimostrare. A volte, per scoperte importanti, lo scienziato le ha raggiunte anche per caso.
Il filosofo Francesco Bacone ne La Nuova Atlantide, una città immaginaria, aveva pensato il potere in mano a una sorta di sacro ordine costituito da scienziati, la Casa di Salomone. Un culto totalizzante della scienza dove non ci si interroga sulla cittadinanza della coscienza della persona, e su uno degli aspetti fondamentali della democrazia che con Locke e Montesquieu diventa centrale nella cultura occidentale: la separazione dei poteri come premessa e condizione per il controllo di chi governa. Anche se, in un momento come l’attuale, le due fasi della democrazia sembrano si siano assopite in una accettazione totalizzante della paura, e che ha portato ad accettare variazioni emergenziali alla libertà e alla stessa democrazia, in assenza pure di una evidenza scientifica che giustificasse pienamente il modello adottato nel Paese, a prescindere dalla norma del distanziamento sociale.
Alla politica, e non agli scienziati, spettava, come in altre nazioni, tenere insieme salute ed economia. Una responsabilità che era possibile attivare garantendo la sicurezza dei lavoratori e delle imprese. Ora sarà tutto più difficile, non tanto per il destino del nostro assetto produttivo che, pur in enorme difficoltà, ha in se la forza per riprendere il cammino interrotto, quanto per le macerie che causerà sul piano sociale una lunga fase di recessione, se non di depressione.
3. La maschera e la persona
La maschera, ancora meglio la mascherina, sta conoscendo un momento di enorme notorietà. Aveva vissuto periodi di ostracismo e di divieti normativi, prescindendo ovviamente dal suo necessario utilizzo ospedaliero, in certi ambiti sanitari, e durante il carnevale. In tempi di coronavirus la mascherina si è ricongiunta per obbligo al suo originario nome, cioè persona. Un notevole slittamento semantico.
Utilizzata soprattutto nel teatro greco e romano, in latino persona (che deriva dal greco o forse dall’etrusco), almeno all’inizio, significava infatti maschera. Non aveva solo la funzione di amplificare la voce, anche se i teatri possedevano un’acustica notevole, ma di rendere evidente, attraverso la maschera, chi si voleva impersonificare; aveva cioè la funzione di individuare più facilmente, da parte del pubblico, il soggetto protagonista della tragedia, e soprattutto, di facilitare gli attori nella finzione per meglio immedesimarsi nel personaggio.
Oggi la notorietà delle mascherine rinvia a una vera e propria tragedia sanitaria, sia per la loro utilità nel difendere dal contagio del virus, sia per la sua scarsa disponibilità in un frangente che avrebbe richiesto invece una distribuzione di massa, soprattutto a favore degli operatori a contatto con gli ammalati, e con quanti sono asintomatici ma comunque in grado di contagiare. Mascherine di diverso tipo e grado di difesa dal contagio, per meglio isolarci e nasconderci dal virus. Una funzione ovviamente molto diversa dalla maschera del teatro greco e latino.
La letteratura della maschera è enorme, ed è probabile che qualcosa maturi anche sulla spinta del coronavirus. Vale comunque la pena riprendere, alla luce dell’utilizzo che oggi facciamo della maschera e della crisi di significato di molto che ci circonda, una affermazione del filosofo e politico romano Seneca nelle Epistulae ad Lucilium : «Non solo agli uomini, ma anche alle cose deve essere tolta la maschera e restituito l’aspetto suo proprio».