di Mario Medde

Una nuova idea e una nuova pratica di specialità e autonomia della Sardegna

Sul filo di una riflessione di anni, ma ancora più attuale in questo momento per una sedimentazione dei problemi irrisolti, e per le dinamiche che nel frattempo hanno profondamente inciso nei rapporti interistituzionali in Italia e in Europa, e per le conseguenze economiche e sociali prodotte dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina ora, è utile, anche per le rappresentanze sociali, non solo ovviamente per la politica, riprendere con grande determinazione i temi dell’Autonomia e della Specialità della Sardegna. Ciò anche in considerazione del dibattito e delle iniziative nazionali sull’Autonomia differenziata e, soprattutto nell’Isola, sul riconoscimento del principio di insularità nella Costituzione. In primo luogo, a scanso di equivoci, proprio sulla vicenda del riconoscimento dello status di insularità, una battaglia che è patrimonio storico della CISL, è importante sottolineare che questo obiettivo diventa rilevante e operativo e supera anche la dimensione economicistica dell’articolo 13 dello Statuto speciale, che pure aveva e continua ad avere valenza costituzionale. L’insularità va inserita però in un nuovo Patto costituzionale tra Stato e Regione, precondizione per riconoscere all’Isola le pari opportunità rispetto alle altre realtà del Paese, e per rinegoziare, con pari dignità, poteri e risorse utili a un maggiore e migliore autogoverno dell’Isola.

In secondo luogo, e sul versante delle responsabilità regionali e della reale Autonomia, è illusorio pensare che la sola manutenzione dell’Ente Regione, attraverso una nuova legge statutaria, come tentato nel passato, (forma di governo, rapporto esecutivo/legislativo, modalità della partecipazione dei cittadini, ineleggibilità e incompatibilità, conflitto d’interessi, riforma degli assessorati) e con una nuova legge elettorale, possa incidere positivamente e in termini duraturi sul rapporto politica-istituzioni-cittadini, sulla inefficienza della Regione, sul rapporto con lo Stato e l’Unione europea.

È la «forma di stato», per noi la forma di Regione, che va rivista; il che presuppone massima lucidità sul disegno che le istituzioni e la società sarda vogliono concretizzare, e su come si può evolvere dunque il rapporto con lo Stato.

I problemi che è indispensabile affrontare riguardano, infatti e qui per soli titoli, il riconoscimento del diritto al lavoro come valore primario rimuovendo prima di tutto le diseconomie esterne al processo produttivo che ostacolano il radicamento e rafforzamento delle intraprese nell’Isola, l’autonomia finanziaria della Regione, il riconoscimento dello status di insularità e la rimozione dei vincoli che ostacolano il progresso economico e sociale dell’Isola, la valorizzazione dell’insularità come dimensione positiva, dunque , e, come detto, l’affermazione dell’autogoverno attraverso un nuovo Patto costituzionale tra Stato e Regione, un nuovo modello di democrazia che realizzi il federalismo interno e il superamento dell’obsoleto modello statuale della Regione.

Non è secondario altresì evidenziare che lo Stato prende dalla Sardegna molte più risorse finanziarie di quanto trasferisce, e non si cura, su più versanti, di promuovere le pari opportunità rispetto alle altre Regioni. Ma nel contempo bisogna pure sottolineare che la Regione, come attuale forma istituzionale, è inadeguata, inefficace e talvolta sprecona. Non riesce quindi più ad espletare la funzione di soggetto regolatore dei bisogni e delle aspettative dei sardi.

Sono due aspetti strutturali dell’attuale questione sarda che bisogna affrontare con la riflessione e l’iniziativa politica. Ferma restando, ovviamente, la valutazione e la primaria rilevanza sulla capacità di governo, sulle scelte politiche e sulla qualità delle iniziative legislative, sia della Giunta regionale che del Governo nazionale. Proprio per questi motivi, nello scenario di profonda crisi produttiva, istituzionale e politica, che coinvolge Stato e Regione, è urgente evitare che le rappresentanze politiche e istituzionali rischino di ristagnare nella mera sopravvivenza, senza un disegno di cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro dei sardi. Il pericolo, infatti, è che l’interesse collettivo venga subordinato all’istinto di sopravvivenza e alla rendita di posizione. Invece, una strategia di alto profilo che, nel promuovere il cambiamento, riformi positivamente anche il rapporto con i cittadini, dovrebbe prevedere la ridefinizione della forma di Regione, affrontando contestualmente le seguenti questioni:
- l’inefficacia della Regione, così come si è sedimentata in questi anni di autonomia speciale; con gran parte degli anni caratterizzati dalla gestione delle sole emergenze e da un utilizzo inadeguato delle risorse finanziarie;
- la crisi della rappresentanza politica e la strutturale debolezza delle leadership istituzionali.

La riflessione conseguente è che la specialità e l’Autonomia hanno certamente accompagnato, come idee forza, le speranze dei sardi nella lunga fase della prima modernizzazione dell’Isola, ma che da tempo si sia però di fronte a un loro innegabile logoramento e alla esigenza imprescindibile di ridefinire le caratteristiche della nostra Autonomia.

La Rinascita, peraltro, pur permanendo come norma costituzionale, è stata rimossa anche dal dibattito politico. Eppure sono ancora evidenti i divari economici e sociali che l’hanno motivata.

Si aggiunga la rottura del Patto costituzionale tra Stato e Regione su temi decisivi, quali il lavoro e altri diritti di cittadinanza che andrebbero invece garantiti. Bisogna invece pensare e programmare lo sviluppo con un’idea di società improntata ai valori di giustizia sociale e di libertà. Valori e progetti da collocare oltre l’autonomia e la specialità così come le abbiamo conosciute. Queste dicono tutto o quasi sul recente passato, ma nulla o quasi sul futuro.

Si sono infatti modificate le categorie politiche, istituzionali, economiche e sociali che davano linfa e razionalità all’autonomia, così come storicamente è stata rivendicata e attuata nella dimensione della specialità, che non è certo venuta meno come caratteristica che proviene dall’essere un popolo, dall’avere una lingua, dall’essere un’isola distante enormemente dal continente, dal provenire da esperienze storico, culturali e istituzionali del tutto originali e specifiche, e da una consapevolezza fortemente identitaria. È anche profondamente mutata la situazione internazionale ed europea, e con essa l’economia e la finanza. È cambiato lo Stato.

Interroghiamoci dunque su cosa è all’ordine del giorno della politica e delle istituzioni sarde. Quale idea e progetto per le istituzioni e la società? Forse l’autogoverno come forma più avanzata della specialità che si afferma in uno Stato federalista? Oppure l’autogoverno come moderna sovranità? O, ancora, il ristagno non solo politico di un’Autonomia ormai superata anche dalle dinamiche interne al Paese e all’Europa e dalla forza delle regioni a Statuto ordinario?

Sottrarsi a questi interrogativi comporta il pericolo dell’emarginazione, in Italia e in Europa, e di un ulteriore arretramento economico e sociale.

La Regione deve comunque fare i conti con il federalismo fiscale, non quello di natura istituzionale, ma quello dettato dai rapporti di forza e da consistenti differenziali di sviluppo. Il rapporto tra accumulazione della ricchezza, centri e capacità di spesa rappresenta una questione ineliminabile per qualsivoglia scelta di sviluppo. Nel contempo è una priorità la definizione degli assetti istituzionali dell’Isola, per attuare il federalismo interno sulla base del quale rinegoziare con lo Stato poteri, risorse e funzioni. In questa direzione, il federalismo cooperativo e solidale rappresenta una risposta coerente con le storiche aspettative dei sardi e un obiettivo da praticare nell’attuale fase storica. Non c’è però più tempo da perdere. I più importanti indicatori economici e sociali dell’Isola volgono costantemente in senso negativo: lavoro, produzione della ricchezza, reddito delle famiglie.

La conseguenza più evidente è l’aumento delle povertà, con più di trecentomila persone al di sotto della soglia della povertà relativa.

Eppure un’altra Sardegna è possibile: con maggiori opportunità lavorative, e adeguate misure di contrasto alla povertà e maggiori tutele sociali. Si tratta altresì di conciliare l’esigenza di una maggiore produzione di reddito con una più equa distribuzione della ricchezza. A tal fine è indispensabile una politica non minimalista, valori, programmi, capacità attuativa, radicamento sociale, nei quali incardinare una rappresentanza politica non solo elettorale.

S’impongono dunque un’idea e una pratica della politica come dimensione popolare e diffusa, e la democrazia rappresentativa, con la valorizzazione dei corpi sociali, come strumento e insieme di regole che meglio e più di altri riesce ad affermare le libertà individuali e collettive.

Non è solo un problema di risorse finanziarie, ma di quante e quali ragioni e passioni, come sardi, sapremo mettere in campo per essere realmente liberi.

In questa direzione le riforme istituzionali sono molto importanti. A iniziare dalla considerazione che statuto e legge statutaria sono inscindibili, e costituiscono un tutto unico organico, indipendentemente dal fatto che i contenuti della seconda siano stati decostituzionalizzati e affidati alle scelte del legislatore regionale.

Infatti, è fondamentale considerare contestualmente sia la specialità che la forma di governo e i due atti normativi corrispondenti, cioè Statuto e Legge statutaria. Ancora prima è indispensabile collocare queste scelte in un principio ispiratore che riguarda non solo l’idea che oggi abbiamo della sovranità, ma anche del rapporto con l’Italia e con l’Unione europea, e del federalismo correttamente inteso. Infatti il diritto all’autogoverno è qualcosa che si desidera per poter godere della libertà, dei beni economici e sociali e di tutte quelle cose cui si attribuiscono valore per il progresso della comunità e per l’emancipazione delle persone.

Tutto ciò va però pensato e attuato in relazione a quel che accade oggi nel mondo, al difficile processo di integrazione e costruzione dell’unità europea, ad una nuova idea di sovranità che non è più quella dello Stato di matrice ottocentesca, alle interrelazioni economiche, istituzionali e religiose che si dimensionano ben oltre le conosciute coordinate eurocentriche.

Le tracce antiche della identità autonomistica della Sardegna

A margine della riflessione su una nuova idea e pratica della Specialità e Autonomia della Sardegna ho ripensato alla richiesta che feci alla Provincia e al Comune di Oristano, in qualità di segretario della CISL di quel territorio, di celebrare il seicentesimo anniversario della Carta de Logu, promulgata da Eleonora d’Arborea nel 1392 quale Reggente di quel Giudicato.

Era evidente la motivazione di valorizzare una ricorrenza di grande valenza storica, giuridica e culturale per l’intera Sardegna. Ma accanto vi erano, e ancora persistono, interrogativi che hanno risposte utili a rafforzare la nostra consapevolezza identitaria e le ragioni della storia autonomistica e speciale dell’Isola.

Da dove viene la nostra autonomia, quali e quante le radici delle nostre istituzioni, quali elementi e soggetti hanno contribuito ai processi di trasformazione della società sarda, e a radicare talvolta in forme e modi strutturali e istituzionali, di lunga durata, anche a livello sociale, le aspirazioni all’autogoverno e alla consapevolezza etnica?

Sono domande che riguardano certamente lo storico, ma il cui merito riguarda un po' tutti; non solo quanti hanno la curiosità intellettuale di leggere nel nostro passato, ma pure coloro che operando nel sociale si ritrovano a vivere in una fase storica di grandi stravolgimenti epocali e di svolta che incidono nei cambiamenti sociali e istituzionali, sia a livello nazionale che regionale.

Sul merito di quello che siamo stati, e di quel poco o tanto che ha influito sulla nostra identità (consapevolezza, usi, costumi, consuetudini e leggi) e sulle istituzioni intese in senso lato, non possiamo dimenticare, tra le tante radici del nostro albero storico e identitario, la Carta de Logu, che andrebbe fatta conoscere e studiare nelle scuole dell’Isola. Si tratta infatti di una raccolta di leggi consuetudinarie di diritto civile e penale che Eleonora d’Arborea sistematizzò inserendo delle “reformaciones” nei preesistenti Carta de Logu de Gociani e Codice rurale, avviati dal padre Mariano IV Giudice di Arborea.

La Carta de Logu fu redatta in sardo Arborense per “s’accrescimentu ed exaltamentu dessas provincias , regionis, e terras descendant, et bengiant dessa Justicia, e chi peri sos bonos capidulos sa superbia de sos reos e malvagios hominis si affrenit e costringat, acciò chi sos bonos, e puros ed innocentis pozzant viver, ed istari interi sos reos assegurados pro paura de sas penas, ed issos bonos pro sa virrtudi dess’amori siant totu obedientis assos capidulos, ed ordinamentos de custa Carta de Logu“.

Dunque una forte motivazione sociale che ebbe modo di radicarsi nel territorio del Giudicato e di restare in uso sino al 1827. Non si dimentichi che nel 1391 Eleonora d’Arborea regnava sull’Isola (eccezion fatta per Cagliari e Alghero Catalana) in qualità di reggente per la tenera età dei figli Federico Doria-Bas e Mariano V.

Una realtà e una esperienza storica di tipo statuale quella del Giudicato di Arborea, in un periodo dominato, per quel che riguarda i nostri eventi, dalla Spagna Aragonese e da sovrani come Pietro IV il Cerimonioso e Giovanni I.

Dunque una realtà notevole per le dimensioni territoriali, per le caratteristiche statuali del Giudicato, per la portata e l’originalità dell’amministrazione della giustizia, per le interconnessioni e le relazioni con altri stati della Penisola e dell’Europa.

Siamo di fronte quindi al “prodotto” di una esperienza storica che merita di essere rivisitata e studiata e perché parte delle nostre istituzioni e di noi stessi.

La nostra infatti non è, come taluni continuano ad affermare per lontananza fisica e intellettuale, una cultura locale, espressione trascurabile di una realtà silvo-pastorale. Certo era quello l’habitat entro il quale sino a qualche decennio fa si svolgevano le vicende dell’Isola; ma quel mondo ha prodotto storia, lingua e cultura che, oltre ad essere trascurate a livello italiano, non vengono neppure seriamente studiate nelle scuole sarde; conseguenza del fatto che i sardi sono stati sconfitti e si ritrovano oggi alla periferia istituzionale e politica del Paese. Da evidenziare che però la storia della Sardegna registra esperienze istituzionali statuali e apporti politico-culturali di grande rilevanza.

Un esempio, certo lontano, ma che ha segnato l’identità dell’Isola è quello dei Giudicati e in particolare del Giudicato di Arborea e della Carta de Logu. Quelle esperienze e le idee che vi germogliarono, come tutte le idee che hanno una dimensione positiva, hanno avuto questo di buono: che continuano ancora a fruttificare anche a distanza di tempo.