Più che un giro di stagione

Dettagli
di Attilio Mastino
 
Presentazione del volume Antiles di Mario Medde
Università di Sassari, 17 maggio 2012

L'amicizia con il segretario della CISL Sarda Mario Medde, soprattutto l'ammirazione per il suo impegno sindacale, ma anche per le sue battaglie a favore dello sviluppo e del lavoro e per la sua sensibilità civile, mi hanno portato ad accettare un invito. Quello di presentare questo libretto inusuale, queste pagine luminose che ci consentono di varcare una porta, di cogliere e toccare con mano un mondo intero sospeso tra presente e passato che ha una sua coerenza, una sua logica, un suo ordine interno. E questo con un itinerario di sentimenti e di emozioni che toccano il cuore.
 Un paese amato. Anche se non è mai citato, sullo sfondo c'è innanzi tutto un paese amato, Norghiddo-Norbello, nel cuore del Barigadu, tra Marghine e Oristanese nella vallata del Tirso, visto attraverso i monumenti, le chiese, la rete urbanistica medioevale, la strada di Sas Benas che porta a Domus, soprattutto la sua gente, la sua economia, la sua cultura agricola e pastorale che ha iniziato a fare i conti prima con lo sviluppo industriale e poi con la crisi di oggi. Un paese di confine, collocato in passato al margine del Giudicato d'Arborea, della curatoria del Guilcier e dell'antica diocesi di Bosa, oggi al margine settentrionale della provincia e della diocesi di Oristano.
Nell'ultima pagina di questo volume c'è una spiegazione per questo ritorno al proprio paese, se valgono le parole di Cesare Pavese citate alla fine del volume (La luna e i falò): «Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione».

Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città.
E Iskra oltre che l'Editore di Ghilarza è anche un luogo simbolo sul Tirso, a breve distanza dalle ciminiere spente di Ottana, in direzione del colle dove sgorgano le sorgenti termali di Oddini tra Orotelli e Orani, il rifugio dei Nurritani liberi della Barbaria di età antica.

Dunque, innanzi Sant'Agostino, Pinacoteca di Cagliaritutto il fiume, come punto di contatto tra geografie diverse. Ma anche il fiume come porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra il dolore della violenza subita e l'amore per la propria gente, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose. Questo è il senso vero di una riflessione che in modo inusuale parte dal De magistro di Agostino di Ippona (il santo sepolto a Karales fino al 721 d.C.): il tema – modernissimo – del rapporto tra segni e significati, verso una nuova frontiera tracciata oggi dalla filosofia dei linguaggi. In realtà la questione è una sola: Agostino intende definire come e da chi l'uomo possa apprendere la verità che dà la felicità: dagli altri uomini attraverso i loro discorsi, le parole? Dalla esperienza sensibile? La risposta a queste ipotesi è negativa. Il maestro vero è soltanto quello interiore, la verità non può essere appresa dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni, ma deve essere appresa dal mondo interiore. E questo richiede un approccio diverso rispetto all'universo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose.

Per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi. Perché chi ascolta – sostiene Agostino –, se le ha percepite direttamente, non impara dalle nostre parole ma riconosce come proprie, perché anch'egli ha costruito dentro di se delle immagini. Se invece non ha percepito quelle cose, chi non capirebbe che anziché imparare crede a delle parole? Il passo del De Magistro che apre questo volume è difficile e duro e il rapporto tra fatti e cose ritorna irrisolto in tanti filosofi contemporanei.

Ma allora il Norghiddo di questo volume esiste solo per l'autore che ricorda una fanciullezza luminosa e colorata, che si può rivivere non attraverso le cose ma solo partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora, lampi di luce, flash che illuminano i fatti che hai vissuto e persino quelli di chi ti ha preceduto. Questi li senti tuoi e non ti lasciano mai. Vivono lì gli spiriti del tempo, fantasmi temibili e figure amate, e quelli che ti appartengono davvero.

Primavera insanguinata. Dunque si può partire dalla primavera insanguinata del 1922, dall'immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni come quelli della lontana lezione di S. Agostino che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana ed ai monti della Barbagia dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un'ingiustizia, l'uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s'arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.
Un altro sentiero, quello che da Pranzu 'e lampadas portava a Sa Serra, riporta alla mente il tragico ricordo della morte, nel 1953, 31 anni dopo, dell'altro nonno, quello paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore: Mario Medde scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile.

Altri furti di bestiame come quello del Natale del 1960 sarebbero stati regolati più civilmente, faccia a faccia, con la rabbia di chi ha subito un'ingiustizia e sente di poter essere protetto dalle autorità, senza rassegnarsi all'arroganza dei prepotenti. Alla periferia del paese ci introduce Sa Jenna de Nadale che ci racconta del coraggio del padre, della sua determinazione, anche del suo successo, quando finalmente gli atti delinquenziali iniziarono ad essere puniti.

C'è in queste pagine la voglia di capire il passato più doloroso, di riconciliarsi con se stesso, di tornare a volare come Massimo Gramellini nel recente bestseller Fai bei sogni: la memoria di una morte tragica è impressa nel cuore e diventa occasione di dolore e evento indimenticabile, condiziona ogni istante della vita di chi ha voluto bene alla persona scomparsa, i figli, i nipoti colpiti dall'ingiustizia e dall'abbandono. Forse scriverne è anche un modo nuovo per dire che oggi finalmente il trauma può essere superato, può essere collocato nella storia, può essere spiegato in relazione alla violenza, all'abigeato, al delitto nell'arcaico mondo pastorale che conosce la transumanza di sos Costerinos, i pastori perennemente in contrasto con gli agricoltori locali. La violenza, frutto dell'ingiustizia e della prevaricazione in una Sardegna arcaica, in una società agropastorale ormai al tramonto, in un territorio di frontiera. Quando finalmente i modi di produzione ereditati dall'età feudale impersonata dagli eredi del marchese vengono a cessare.

Ancora più indietro nel tempo, la piaga delle cavallette in età fascista e nel 1946, con la processione che da Norbello giungeva fino alla chiesa di Bonarcado, con il carro a buoi cerimoniale costruito per l'occasione: un santuario che testimonia una devozione popolare profonda, verso la statua di Bonacattu nel senso di Buona accoglienza, buon ritrovo, luogo di devozione dall'età giudicale. Mi piace il costante riferimento alla storia del territorio, lungo l'antica strada romana a Turre Karales, dove in località Caddharis è possibile scorgere i mullones come sul Gennargentu, i mucchi di pietra segno dei confini delle proprietà del regno eredi del demanio imperiale romano, cedute da Costantino di Lacon all'ordine camaldolese per la Madonna di Bonacattu. Pochi mesi dopo la processione del settembre '46, le cavallette, su pibintzili, scomparvero dal territorio di Norbello, forse segno dell'efficacia di una devozione e di una cultura.

disegno della chiesa di San GiovanniI luoghi della vita. Ma altre porte, antiles, jennas, jannas, introducono ad altra scene, di gioia e di gioco come presso la casa disabitata di Massidda sul cortile dove i ragazzi impegnati in una partitella di calcio si contendevano lo spazio con le galline di Tzia Adalgisa protette dalla roncola di Tziu Nicu; oppure giocavano con i tappi della spuma Bartali o della birra. Il ricordo si fa più sereno, rivedendo Sa Idda coi suoi mille abitanti e le sue 5000 pecore, le case con gli spazi per gli animali, il maiale, le galline, la cucina. Appartamenti spesso senza acqua, senza la vasca da bagno, addirittura senza il gabinetto, magari con uno spazio nascosto, riservato alla vista nel giardino. E poi l'assenza della rete fognaria, le cunette dove scorrevano le acque bianche e le acque nere. La piazza centrale, su carruzzu, dove si svolgevano le feste, i balli per il carnevale arcaico del Barigadu. Il Monte Granatico, espressione primitiva di una solidarietà verso i contadini poveri.
Sono i luoghi che fanno tornare alla memorie emozioni e scene che non si possono dimenticare: Sa pratza de Tzia Maria Licheri evoca il dolore della separazione, la partenza degli amici, i cugini emigrati per sempre a Torino, che lasciano la casa che, come tante altre nel paese, all'improvviso cessa di vivere. Una diaspora che fa ancora sanguinare il cuore. Come non pensare alle drammatiche pagine dedicate da Gavino Ledda agli emigranti che partono per l'Australia: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che l'autore descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all'autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo.

Ancora luoghi che evocano ricordi: la chiesa medioevale di San Giovanni Battista, con un sapore antico che sembra testimoniare che c'è qualcosa che continua a vivere nel tempo e nelle generazioni, una sorta di genius loci che dà sacralità all'ambiente, che suscita ricordi e rinnova vincoli che continuano oltre la morte. Ho confrontato le pagine di questo volume con i più recenti studi di storia dell'arte, con i risultati degli scavi archeologici che confermano l'interesse storico di questo lembo del territorio comunale, lungo sos caminos de Corrighinu verso i mitici frutteti di Sa Corte e di S'Ena verso Domus, una sorta di Giardino delle Esperidi mitizzato nella memoria, associato con emozione anche al ricordo di Libera, una ragazza deliziosa dagli occhi azzurri desiderata e amata dai timidi studentelli di un tempo lontano.

Ma sono i vicini ruderi della chiesa cimiteriale dell'Angelo Custode eretta nel '500 in occasione di una straordinaria pestilenza, che evocano le immagini più forti, attraverso i ruderi smozzicati e l'enigmatica epigrafe in latino che invoca l'assistenza dell'angelo per i defunti uccisi dalla peste. E qui l'emozione per il mistero che si respira davvero, di fronte al le sepolture scavate nel pavimento della chiesa e nel vicino cimitero abbandonato: i lastroni di basalto che oscillano sotto il peso dei visitatori intimoriti, ragazzi spaventati, che immaginano crepe, gallerie sotterranee, pericoli nascosti, potenze infernali. Un mistero che affascina e atterrisce ancora.

E poi la società pastorale, la sapienza antica dei contadini e dei pastori, il mondo della magia e della medicina popolare, le competenze di Tzia Maria Licheri, una donna dolce e disponibile, eccezionale nel mettere a posto ossa e muscoli, come quella che io stesso ho conosciuto a Scano Montiferro forse negli stessi anni. Le pozioni per combattere il malocchio.

Si inizia con la scuola elementare, con i bambini che indossavano un grembiule nero con il fiocco rosso, come in tante fotografie di quegli anni. Le cartelle di cartone, la mensa scolastica malamente gestita dalla Opera Pontificia, i sapori del formaggio arancione o della minestra. Inavvertitamente sto mischiando i miei ricordi a quelli di Mario Medde. I banchi con il contenitore per l'inchiostro, i solchi per riporre penne e pennini, la lavagna, i rimedi contro il freddo come il barattolo per conservare le braci e la cenere del caminetto.

Ricordo nitidamente anch'io il 1956, l'anno della neve, che rimane in una foto di mia madre a Bosa, davanti alla giardinetta di mio padre, con le campagne del Marrargiu completamente innevate: ricorda Mario Medde che fu un disastro per il bestiame e per i pastori dell'interno, mentre rimane fortissima l'immagine dei sos candelabros, enormi stalattiti che scendevano dai tetti delle case di un paese inconsueto che si stenta a riconoscere.

Addio alle armi, il primo Oscar MondadoriStoria di una maturazione. Questo libro è anche la storia di una maturazione, in famiglia, grazie al coraggio del padre, a scuola, nell'amministrazione, nello sport, nella politica, nel partito socialista in un ambiente fortemente condizionato da un notabilato locale democristiano poco aperto alle novità, anche da un partito comunista che progressivamente rinnega l'ortodossia. Infine nel sindacato, fino ai vertici regionali e nazionali. L'imbarazzo dei comunisti per la rivolta di Budapest ed i carri armati sovietici in Ungheria. E poi l'impegno nell'Umanitaria, nel Centro dei servizi culturali de l'Unla come in tanti altri paesi della Sardegna, nell'Arci, attraverso le letture più diverse, il vangelo di Giovanni, Don Milani, Hemingway, Sagan, Sartre, Wittgenstein. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese rimane ancora oggi un libro letto ed amato.

C'è serenità e coscienza di se in queste pagine che raccontano di un personaggio che capisce a fondo la Sardegna, sa usare una lingua e raccontare una cultura, conserva dentro di se la storia lunga della sua famiglia e della sua terra, con un angolo visuale del tutto originale, che parte da un territorio e da uno spazio geografico poco frequentato nella letteratura sarda. Mi è piaciuta molto la riflessione sulla parola, il dubbio che la parola possa ancora raccontare qualcosa, promuovere la speranza e il cambiamento, proteggere dall'abuso e dal profluvio della politica. Mi è piaciuta la citazione del modernista Ezra Pound «La parola è morta». Mi è piaciuto il commento di Mario Medde, sindacalista impegnato proprio sul versante della parola, per il quale la parola oggi certamente soffre, e tanto, di credibilità e non solo come sostiene qualcuno per la «colonizzazione della parola da parte della politica», ma per il vuoto di ideali e di narrazioni.

Il senso del libro è allora quello di ritrovare un equilibrio, di riscoprire il valore dell'introspezione e del silenzio: e la ricerca dentro se stessi non può essere finalizzata a recuperare e tenere in vita i fantasmi del passato, ma si deve cercare almeno – sono le ultime parole di questo volume –, con sobrietà e costanza la verità.