Lo Statuto sardo ha 70 anni

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di Mario Medde

Il 31 gennaio del 1948, nell’ultima seduta dell’Assemblea Costituente, viene approvato lo Statuto di Autonomia Speciale della Regione Sardegna. La legge costituzionale relativa, con la data del 26 febbraio 1948 e il numero 3, viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 58 del 9 maggio dello stesso anno. L’8 maggio del 1949 si vota per la elezione della prima Assemblea legislativa della Sardegna denominata, nello Statuto, Consiglio Regionale; a differenza della Sicilia, dove l’Assemblea ha dignità di Parlamento.

A distanza di 70 anni è evidente quanto abbiano pesato, sulle speranze e sugli obiettivi di sviluppo economico e sociale dell’Isola, e sulla soluzione degli storici problemi della questione sarda, da un lato le inadeguate prerogative e competenze previste nello Statuto, e, dall’altro, anche i limiti e i vincoli delle leadership sarde nelle scelte che accompagnarono l’esperienza dell’Autonomia Speciale e della Rinascita.

La riconosciuta specialità della Sardegna, rispetto allo Stato che si riorganizzava nella dimensione regionalista, dopo le drammatiche esperienze del fascismo e della guerra, assumeva nello Statuto una prioritaria connotazione economicistica. L’articolo 13, caso unico tra tutti gli statuti speciali, infatti così recitava : «Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna». Ma solo nel 1962, l’11 di maggio, dopo 14 anni, la Commissione Bilancio della Camera, approva il disegno di legge sul Piano di Rinascita; il 29 maggio l’approva la Commissione Interni del Senato. Il modello istituzionale che si intendeva dare all’Ente Regione restò totalmente fuori dal dibattito e dalle scelte che vennero fatte anche negli anni successivi. L’autonomia venne declinata all’interno sul modello dello Stato, a totale discapito del principio di sussidiarietà e trasferendo nell’Isola quel centralismo, politico, amministrativo-burocratico, che pure era stato oggetto di lunghe e aspre critiche verso Roma. La costruzione di una Regione sul modello statuale e l’accentramento fisico delle strutture e di un larghissimo ceto amministrativo-burocratico contribuì non poco, e negli anni, insieme alle scelte economiche e dei servizi primari(trasporti e collegamenti,scuola,sanità,uffici pubblici), a quella polarizzazione urbanistico-demografica e di potere che così gran parte hanno avuto anche nelle difficoltà di sviluppo della Sardegna centrale e dei comuni minori dell’Isola.

A ciò si aggiunga un altro elemento determinante per le vicende autonomistiche: la ripartizione delle competenze della Regione, previste nello Statuto, come esclusive , concorrenti, integrative-attuative, già limitative dell’autonomo potere legislativo, vennero declinate negli anni o in termini riduttivi o, salvo qualche eccezione, attraverso timidi contenziosi con lo Stato. Successivamente, lo stesso articolo 10 della legge costituzionale 3/2001, la clausola di “maggior favore “ del Titolo V del 2001, ha portato a pochi e del tutto residuali aumenti di competenze.

L’ordinamento finanziario della Sardegna è l’esempio forse più importante, insieme a quello dell’insularità e della mobilità aerea e marittima, dei limiti delle competenze e prerogative previste nello Statuto. Limiti dello Statuto, ma sintomatici anche della dimensione neocentralistica dello Stato; vincoli del tutto negativi e resi ancora più evidenti dalla nota vertenza sulle entrate e sui trasferimenti delle compartecipazioni erariali e tributarie e dal mancato riconoscimento dello status di insularità come elemento della nuova e perdurante specialità.

Sul versante della ricostruzione storica, c’è da sottolineare il peso delle vicende post-belliche, le divisioni conseguenti all’accordo di Yalta che portarono, dopo il periodo dell’unità antifascista, a una contrapposizione tra blocchi politici che condizionarono anche le vicende autonomistiche, i contenuti dello Statuto e la loro gestione negli anni. La riforma dello Stato in senso regionalista fu il massimo che si poté realizzare in una fase caratterizzata dalla primaria esigenza di ricostruire lo Stato e le istituzioni locali dopo il fascismo, la guerra e la nascita della Repubblica. L’unica eccezione di ”regionalismo avanzato “ fu allora fatta per la Sicilia; c’era infatti l’esigenza di riassorbire la diffusione del separatismo, che tanto radicamento ebbe allora nell’Isola. Per la Sardegna non fu solo un problema di diverse sensibilità e culture politiche a determinare la sconfitta dell’idea federalista, che avrebbe portato a ben altre competenze e forse a un futuro diverso. Emilio Lussu difese nell’assemblea Costituente l’idea di uno Stato federalista e di una Sardegna federata, proponendo in subordine, ma venne sconfitto anche in sede di Consulta sarda, l’estensione all’Isola dello Statuto della Sicilia, che aveva ben altre prerogative e competenze. Resta famosa la sua frase : «l’autonomia sta al federalismo come nella famiglia dei felini il gatto sta al leone».

Questi convincimenti non gli preclusero l’impegno coerente a difesa delle idee e dei principi dell’autonomia speciale. In occasione del Congresso del popolo sardo ebbe a dire : «Oggi riprendiamo il cammino più forti. Sì, tra noi vi è chi è a sinistra e chi a destra; vi è chi crede in un mondo e chi in un altro. Ma ognuno e tutti abbiamo fede nella rinascita dell’Isola. E sappiamo tutti che i nostri contadini e i nostri pastori portano sempre, ancora nel volto e nel cuore la traccia della nostra sofferenza millenaria […] Siamo fedeli alla causa loro, perché è la causa di tutto il popolo sardo, da quando la Sardegna ha una storia».

Quella di Lussu si dimostrò una vana speranza; almeno per quel che rappresentò il Piano di Rinascita nella soluzione dei problemi atavici della Sardegna, sia sul versante del lavoro che delle diseconomie interne ed esterne ai processi produttivi, e della mobilità delle persone e delle merci. La prima modernizzazione dell’Isola si realizzò infatti solo in minima parte come prodotto delle dinamiche messe in campo sia dal primo che dal secondo Piano di Rinascita, che venne rifinanziato il 30 maggio del 1974. Un aspetto positivo dell’Autonomia e della Rinascita fu invece lo strumento della programmazione democratica per individuare e rafforzare le scelte della massima istituzione regionale e degli Enti locali; consentì infatti una diffusa partecipazione sociale e istituzionale, una superiore consapevolezza dei propri destini e la maturazione di un gruppo dirigente che nelle fabbriche e nei territori si spese per lo sviluppo e il diritto al lavoro. La vitalità sociale non si tramutò però in un progetto politico di positivo e diffuso cambiamento, se proprio negli anni della Rinascita si rafforzò il fenomeno dell’emigrazione e l’abbandono delle campagne.

L’industria era ed è necessaria per lo sviluppo dell’Isola. Ancora di più in un contesto di sempre più accentuata globalizzazione e di competizione internazionale. Ma gran parte delle scelte effettuate negli anni della Rinascita si rivelarono fallimentari non solo per gli effetti delle dinamiche internazionali, politiche e produttive, o per la naturale obsolescenza dei cicli economico-produttivi, ma anche per le “ tipologie” settoriali individuate e per il metodo “ prendi e fuggi “ che caratterizzò la storia del sistema incentivante in numerose allocazioni industriali. Aspetti che non consentirono un processo di verticalizzazione produttiva e una loro integrazione con le realtà territoriali, e tantomeno favorirono una benché minima cultura imprenditoriale.

C’è da dire che quasi mai le costituzioni materiali rispettano le aspettative di quella formale. Così è stato per la Costituzione dell’Italia e così per lo Statuto della Sardegna.

Oggi, a 70 anni dall’approvazione dello Statuto, la questione sarda, nei suoi aspetti istituzionali, sociali, economici e culturali, permane in forme nuove e allo stesso tempo tradizionali, perché restano e insoluti molti dei problemi che vengono dal passato, ma che richiedono risposte sostanzialmente diverse da come le avevano pensate i padri dell’Autonomia e della Rinascita. E si aggiungono problemi e fenomeni che vanno collocati in scenari che appartengono solo all’oggi. Inoltre, quelle opzioni che hanno motivato generazioni di sardi sono diventate obsolete, inservibili, anche perché non si sono tramutate in obiettivi di sviluppo, lavoro e libertà. Ciò non di meno permane ancora più forte l’aspirazione dei sardi all’autogoverno, al rafforzamento della specialità, in un quadro di attiva e diretta partecipazione all’Europa dei popoli; nonostante da anni si sia spenta la spinta propulsiva delle migliori stagioni dell’Autonomia e della Rinascita.

Ora, dunque, dobbiamo ripensarle in un nuovo Patto costituzionale con lo Stato, e, all’interno, con una nuova Regione e con un modello istituzionale che valorizzi i territori e le autonomie locali. In questa direzione la sussidiarietà orizzontale e verticale e la partecipazione alle scelte dello sviluppo non sono obbiettivi desueti, ma indispensabili per promuovere il lavoro e rafforzare la democrazia.

Ma le stagioni costituenti sono frutto anche dell’iniziativa e del coraggio delle leadership che, invece, prima ancora che a Roma, qui in Sardegna, le hanno ostacolate e respinte, talvolta per opportunismo e sudditanza, altre volte per cecità politica. Stanco di tutto questo, ma non senza speranza, Giovanni Lilliu, un grande della nostra Terra, ebbe a scrivere diversi anni fa: «Certo da questa piccola terra sono lontani grandi sogni e progetti, siamo avviluppati da una mediocrità montante. Ci vorrebbero per scuoterci dall’indifferenza e dal letargo un dinosauro chimerico, un poeta, un innamoramento pazzo della Sardegna, un qualcosa insomma di grande, tale da ottenere una sorte invidiata per l’Isola».