Il rapporto Stato-Regione e la lotta alle povertà: due grandi emergenze della Sardegna

Dettagli di Mario Medde

Due argomenti, da tempo rimossi, meriterebbero di ritornare al centro dell’agenda politica della nostra Isola: il rapporto con lo Stato (in primo luogo la specialità e la rinegoziazione dei poteri della Regione) e la lotta alla povertà.

1

Il rapporto con lo Stato vive una fase tra le più residuali, sia per l'affermazione di leadership nazionali autoreferenziali, che interpretano in senso "bonapartista" la vita politica e istituzionale, sia perché il ceto politico sardo, privo della necessaria cultura e visione strategica, vive il tramonto dell'autonomia rimuovendone la storia.

La stessa massima istituzione dell'Isola, la Regione, che in altri tempi almeno discuteva di federalismo interno e di pari dignità tra territori e istituzioni, è oggi totalmente ripiegata sulla dimensione residuale dei meri costi, in realtà sui rapporti di forza non solo demografici, piuttosto che sulla efficacia e rispondenza delle istituzioni ai bisogni dei Sardi.

La riforma del sistema delle autonomie locali e il riordino della sanità sono due mirabili esempi della fine dell'autonomia, anche in senso lato, come capacità di decidere rispettando la pari dignità e opportunità dei cittadini e dei territori.

Si pensi anche a quel che viene proposto dal governo nazionale relativamente alle prestazioni sanitarie e alle visite specialistiche; le condizioni di derogabilità su 208 prestazioni (erano 180) a carico del servizio sanitario le detterà il Ministero della salute. La condizione dell’assistito e del malato e la professionalità del medico, che dovrebbe decidere come curarlo, non peseranno più di tanto.

È vero che la democrazia dei costi ha sostituito quella dei cives, dei cittadini; ma, anche a seguire questo stravolgimento, non ci si interroga, neppure, se a governare ex parte principis, cioè dalla parte dei più forti e privilegiati, piuttosto che ex parte populi, non abbia costi sociali che alla lunga producono danni irreversibili all'intero sistema sociale, e dunque alle stesse istituzioni democratiche.

Il bonapartismo oggi è, infatti, solo una preoccupante esaltazione di sé stessi, coltivata sulle ceneri della democrazia partecipata e sulla crisi conseguente alla degenerazione della rappresentanza politica. Ma questo esito non è un destino irreversibile. In Sardegna meno ancora, non solo perché gli interpreti locali non hanno la virulenza dei loro modelli nazionali, ma anche perché la resistenza culturale e identitaria che, ancorché in sonno, permane comunque in vasti strati della società sarda, è pronta a risvegliarsi, come è capitato in altri momenti della storia dell'Isola.

L'impegno per il cambiamento, soprattutto quello delle istituzioni, deve però essere ancorato ad una forte visione culturale, cioè a valori prima di tutto di giustizia sociale, e a norme in grado di garantire efficienza ed efficacia. Dunque, idee, progetto e valori, dove però l'economicismo non assuma dimensione preponderante. L'inerzia del sistema, istituzionale, economico e sociale, nella promozione del cambiamento positivo, non si rimuove riducendo i centri decisionali o di servizio, ma individuando le vere rendite parassitarie e di posizione e, in tutti i casi, condividendo gli scopi, promuovendo i diritti della persona e dei territori, riconoscendo la "fatica della democrazia" nella costruzione della volontà collettiva.

La velocità decisionale e l'estrema semplificazione dei centri di comando, per quel che concerne le istituzioni, sono sempre state un alibi per rafforzare, talvolta in senso autoritario, il proprio potere, senza neppure poter contare, nel medio e lungo periodo, su risultati utili al benessere collettivo; ma anzi riducendo la capacità di produrre ricchezza e la sua stessa equa redistribuzione. La storia è piena di questi insegnamenti; ultima in ordine di tempo la teoria e la pratica del liberismo sfrenato che ha creato le condizioni della lunga e ancora presente crisi finanziaria ed economica.

L'efficienza invece migliora dove c'è un sistema di valori che fa riferimento in primo luogo al principio di legalità, a quello di uguaglianza e ai diritti della persona, e insieme a un processo di formazione delle opinioni democratico e partecipato.

Nulla, nella riorganizzazione dello Stato e nella caduta nella riforma delle Autonomie Locali e nella proposta di riordino della sanità nell'Isola, risponde a questi requisiti. Al contrario, i parametri che sottendono le scelte riguardano i costi, il contenimento della spesa e la dimensione demografica; il tutto a prescindere dalle specificità storico-culturali, economiche e geo-territoriali. Così è per la Legge nazionale 56/2014, nota come "legge Del Rio" e recante "Disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province e sulle Unioni dei Comuni" e, conseguentemente, per il DDL n.176 della Giunta regionale sarda, che ipotizza una riorganizzazione degli Enti Locali che tra l'altro non tocca minimamente il ruolo e le competenze dell'Ente Regione e il rapporto tra centro e periferie.

Un modello di riordino, dunque, che non si cala nella storia dell'Isola, né incide sul necessario superamento di un'organizzazione istituzionale bloccata su un modello statuale di Ente non più funzionale ed efficace, sia nella programmazione che nella spesa. A ciò si aggiunga una proposta di individuazione delle nuove province e di area (o aree ?) metropolitana che rischia di diventare ostaggio dei rapporti di forza della politica. Ancora una volta saranno penalizzati i comuni minori, che rappresentano un insostituibile presidio del territorio, e le zone interne che continueranno a deperire nel processo di tendenziale estinzione di quelle comunità. Si rafforzerà così nell’Isola quello squilibrio, prima economico-sociale e poi demografico, chiamato “effetto ciambella”. Per inciso, lo spopolamento delle aree interne e dei comuni minori può essere bloccato, rilanciando lo sviluppo, attraverso una pluralità di interventi riguardanti i servizi, le opportunità lavorative e l'abbattimento delle diseconomie infrastrutturali, e valorizzando l'allevamento, il turismo connesso alla fruizione del patrimonio archeologico, culturale e ambientale e le attività imprenditoriali medio-piccole e artigianali.

Pensare di risolvere il problema dello spopolamento incentivando flussi migratori verso queste comunità significa disconoscere le cause vere della lunga crisi delle aree interne e dei comuni minori, peraltro vessati dallo Stato con i tagli e le riduzioni dei trasferimenti e l'ulteriore abbattimento delle speranze di riscatto. Non c'è ragione alcuna che possa spingere infatti un processo migratorio verso le aree interne, piuttosto che verso il nord Europa, a fronte peraltro di un fenomeno del tutto nuovo che riguarda le migrazioni di giovani diplomati e laureati da queste zone dell'Isola verso il continente e l'Europa.

Le difficoltà di ripensare l'autogoverno da parte delle leadership sarde, superata la spinta propulsiva delle opzioni forti, quali l'Autonomia e la Rinascita, porta all'inaridimento strategico sul versante degli assetti istituzionali interni, insieme a una totale dipendenza operativa e a una accettazione supina delle scelte nazionali, senza iniziative adeguate alla gravità della situazione dell'Isola. I servizi socio-sanitari sono a carico della Regione, così pure i costi del diritto allo studio, mentre la cosi detta razionalizzazione della rete scolastica, riducendo al minimo la presenza della scuola nel territorio, e tagliando gli organici di docenti e non docenti, ha impoverito l'offerta educativa e formativa, vanificando anche le misure di contrasto della dispersione scolastica. La continuità territoriale con il resto del Paese è ancora inesistente, penalizzando oltre misura i cittadini, le aziende e l'intero sistema produttivo, disconoscendo così le pari opportunità con le altre regioni che godono della contiguità territoriale, un valore aggiunto non solo per il dimensionamento dei mercati e per i costi del trasporto.

L'articolazione dei Ministeri dello Stato, e nelle società di sua proprietà , spoglia i territori di servizi e rappresentanze importanti; ultimi in ordine di tempo i tagli nelle Prefetture e nelle Poste.

Il mancato riconoscimento dello status di insularità si aggiunge alla fortissima penalizzazione dei Comuni che soffrono per la riduzione dei trasferimenti finanziari, con la conseguente rimodulazione dei servizi, e per gli effetti deleteri causati dai vincoli del patto di stabilità. Anche il sistema di sicurezza sociale, soprattutto per quel che concerne le emergenze e le politiche attive del lavoro (a eccezione della indennità di disoccupazione, sempre più limitata nel tempo di godimento, e della integrazione del reddito, peraltro anticipata quest'ultima dalla Regione attraverso l'INPS), è per la quasi totalità sulle spalle della Regione, ivi compresa la lotta alla povertà e le relative misure di contrasto.

L'affermazione che i trasferimenti dello Stato per le pensioni superano i versamenti contributivi dimostra quanto nella storia contributiva dei lavoratori sardi abbiano pesato, e ancora di più oggi, la disoccupazione e la cassa integrazione, e l'assenza di trasferimenti atti a promuovere le pari opportunità e le condizioni necessarie ad abbattere le diseconomie esterne al processo produttivo. Il credito maturato verso lo Stato, dalla fusione perfetta ad oggi è dunque incalcolabile. Ancora oggi, ad esempio, l'utilizzo del Fondo Sociale Europeo e del FESR surrogano responsabilità e interventi che dovrebbero competere all'ordinario intervento dello Stato.

La stessa antica e mediocre infrastrutturazione dell'Isola, a iniziare dalla rete stradale e ferroviaria, non gode delle attenzioni e preoccupazioni dello Stato. La situazione delle Province, che vivono "tra coloro che sono sospesi" sta comportando l'abbandono, anche nella manutenzione per l'assenza di risorse, di importanti assi viari dell'Isola.

Dunque, lo Stato è presente in Sardegna, in forme e modi consistenti e senza precedenti, essenzialmente attraverso l'imposizione fiscale e tributaria, e sempre di meno, talvolta per nulla, con i servizi e i diritti, pure costituzionalmente riconosciuti. La vertenza sui trasferimenti erariali e tributari dovuti dallo Stato si è arenata in un mero contenzioso di tipo quantitativo, peraltro al ribasso, senza il progetto e la necessaria mobilitazione per almeno porre, nella sua interezza, la questione fiscale sul versante della titolarità della riscossione e dei trasferimenti.

Su tutti questi problemi la Regione e le leadership politiche si sono limitate a inseguire, e male, le emergenze e le priorità e compatibilità indicate dal Governo di turno. Sono mancate una strategia e idee forti in grado di governare la transizione, andando oltre le opzioni storiche, Autonomia e Rinascita, ormai logorate dagli anni e dalle nuove dinamiche della globalizzazione, dal processo di unificazione europea, dalla lunga crisi finanziaria ed economica, dalla politica nazionale, e, non ultima, dai bisogni e nuove aspettative dei sardi.

In questa direzione necessiterebbe un aggregato politico in grado di veicolare la presenza della Sardegna in Europa, e ancora prima una nuova idea di Autogoverno, compatibile con le dinamiche europee e con le capacità attuative utili nello scenario nazionale. Il federalismo resta ancora una opzione praticabile a patto che ci si lavori senza sudditanze e ambizioni personalistiche. Il che di questi tempi non è cosa facile. L'esperienza maturata in tanti anni nelle iniziative per un nuovo Statuto è eloquente e la dice lunga sulle responsabilità dei gruppi dirigenti della gran parte dei partiti dell'Isola.

Una seria discussione e approvazione di una vera legge Statutaria (si veda cosa ha approvato il Consiglio regionale in materia, una legge elettorale la cui interpretazione e attuazione ha bloccato per diverso tempo l'attività consiliare e originato un duro contenzioso), cioè della legge fondamentale della Regione Sardegna, perché dovrebbe disciplinare l'organizzazione dell'Autonomia, e del nuovo Statuto da presentare al Governo e al Parlamento, avrebbe avviato una diversa fase politica e istituzionale, superando forse l'Autonomia speciale verso una nuova idea e pratica di Autogoverno dell'Isola. In questa direzione il ceto politico sardo (una notevole maggioranza) ha ostacolato e bocciato, complici i partiti che si sono succeduti, da almeno quindici anni, al governo del Paese, il coinvolgimento dei cittadini sardi attraverso l'Assemblea costituente del popolo sardo.

2

La seconda questione, non per ordine d'importanza, che merita di essere ripresa in sede politica e istituzionale, è la lotta alle povertà. In Sardegna le famiglie al di sotto della soglia di povertà sono 177 mila, circa 410 mila sono i Sardi che vivono questa drammatica situazione. Un fenomeno in crescita, se si pensa che nel 2003 la percentuale delle famiglie povere era del 13,3%, e che oggi si attesta intorno al 24,8%. Nel 2013, appena due anni fa, e il fenomeno non è in decrescita, erano 520.000 le persone che erano a rischio di esclusione sociale, e di questi 233.000 in condizione di grave deprivazione.

La causa primaria è l'assenza di lavoro o la precarietà, oppure una pensione minima o insufficiente a garantire una vita dignitosa; ma ormai, a causa dei bassi salari e stipendi e del costo della vita, dell'eccessiva imposizione fiscale e tariffaria, si è di fronte a un processo di generale impoverimento del ceto medio e dei lavoratori monoreddito con famiglia a carico. La lunghissima fase di stagnazione e recessione dell'economia regionale, che ancora perdura senza che appaia all'orizzonte un segnale di inversione, ha spinto la Regione Sardegna, su forte richiesta del sindacato, a varare, a partire dal primo quinquennio del 2000, una legislazione di contrasto delle povertà.

La legge 23/2005 ha riorganizzato la programmazione e gestione dei servizi alla persona. Con la legge finanziaria del 2007, su richiesta del sindacato e di alcune associazioni operanti nel sociale, viene istituito il fondo contro la povertà. Provvedimento reiterato anche negli anni successivi con 30 milioni di euro e con tre tipologie di interventi da parte dei Comuni: sussidi a favore di persone e nuclei familiari in condizione di accertata povertà, contributi per l'abbattimento dei costi dei servizi essenziali, sussidi per lo svolgimento del servizio civico comunale.

Da evidenziare che negli stessi anni viene istituito il fondo a favore della non autosufficienza. Su tutte le misure riguardanti la lotta e il contrasto delle povertà è assente un serio monitoraggio degli effetti prodotti dalla legislazione e dell'efficacia degli interventi nelle diverse comunità. A circa otto anni dall'avvio delle misure richiamate è oggi fondamentale effettuare una verifica e indirizzare la legislazione verso interventi più attivi e controllati su tipologie integrate, assistenza, riqualificazione e integrazione sociale e lavorativa, limitazioni temporali al godimento della prestazione.

A livello nazionale non esistono interventi specifici e significativi. Sono attualmente in campo due proposte, quella del M5S sul Reddito di cittadinanza che ha come platea la povertà relativa, e l'Alleanza contro la povertà (Associazionismo) la povertà assoluta. La prima ha 9 milioni di potenziali beneficiari e un costo di 14,9 mld di euro, la seconda avrebbe 5 milioni di beneficiari e un costo di 7 mld di euro.

In attesa di un provvedimento da parte del Governo, se ci sarà la volontà politica e se si troveranno le risorse, la Regione Sardegna deve riprendere in mano l'obiettivo della lotta alla povertà e andare oltre l'esperienza delle misure solo assistenziali, riformando il sistema di sicurezza sociale regionale e integrandolo con gli interventi di politica attiva del lavoro. In primo luogo è urgente lo strumento dell'Osservatorio sulle povertà e il monitoraggio periodico della programmazione di settore e dello stato ed efficacia della spesa in capo ai provvedimenti di contrasto della povertà. Contestualmente, è urgente una legge di riordino che dia il segno di una politica attiva alle misure in campo da diversi anni, condizionando i beneficiari, laddove utile per il reinserimento o per attività di interesse pubblico, alla partecipazione ad attività informative, formative ed eventualmente di riqualificazione.

In questa direzione è importante che il progetto personalizzato abbia un tutoraggio che vada oltre l'ufficio dell'assistente sociale del comune, per coinvolgere invece, in fase istruttoria e gestionale, le agenzie accreditate per i servizi al lavoro e la formazione. La lotta alla povertà come politica attiva, ferma restando comunque in determinati casi la necessità di misure di tipo assistenziale, necessita infatti di un programma pluriennale per il lavoro, avendo come destinatari una platea che copra le diverse esigenze di età e coinvolgendo sia i Comuni che le imprese, anche attraverso il sostegno previsto, ad esempio, per Garanzia giovani.

3

La costruzione delle nuove istituzioni dell'autogoverno della Sardegna, con la rinegoziazione dei poteri con lo Stato, e la lotta alle povertà e per il lavoro, sono due aspetti primari e indissolubili di un rinnovato progetto di democrazia, di nuovi diritti e doveri di cittadinanza che necessitano di condivisione e di una consapevole e diffusa partecipazione. Dopo vengono gli articolati di legge, ma dentro un disegno di libertà e società.

In questa direzione è difficile ipotizzare un'autonoma e positiva svolta della politica e delle istituzioni. È indispensabile che nella società, e ci sono le potenzialità, maturi, e in fretta, date le dinamiche involutive sul versante dei diritti e della rappresentanza politica, la consapevolezza della necessità di una nuova fase di orientamento della pubblica opinione e di democratica mobilitazione a sostegno degli obiettivi di riscatto sociale dell'Isola e di affermazione di un più maturo autogoverno.